«A Cesc Fabregas dicevo sempre: mostrarsi fragile è un grandissimo atto di credibilità»

Gianluca Zambrotta. Beppe Bergomi. Due ex calciatori italiani. Due campioni del mondo. In epoche differenti ma con un percorso, personale e di squadra, simile. Entrambi saranno al centro di due incontri online gratuiti – all’interno del contenitore Un’ora parliamo di... organizzato dalla Croce Rossa con il sostegno del Dipartimento della Sanità e della Socialità del Cantone Ticino – in programma lunedì 14 aprile e lunedì 5 maggio (per iscriversi basta cliccare qui). Il doppio confronto sarà incentrato, da un lato, sulle gioie e sulle emozioni delle grandi imprese sportive e, dall’altro, sui sacrifici e sui fallimenti che segnano il percorso dei grandi campioni. In mezzo, il tema dell’educazione intra-generazionale. Ad accompagnare Zambrotta e lo Zio ci sarà Samuele Robbioni, responsabile dell’area psicopedagogica della Pallacanestro Cantù, già mental coach del Calcio Como e, a suo tempo, del settore giovanile del Lugano. Lo abbiamo intervistato.
Iniziamo da questa apparente dicotomia: il successo da
una parte, il fallimento dall’altra. Due facce della stessa medaglia, come del
resto l’immagine che abbiamo del campione e il lavoro, spesso oscuro, che si
cela dietro una vittoria. Che cosa dobbiamo aspettarci, dunque, da queste due
serate?
«Ho la fortuna di avere un rapporto di amicizia sia
con Gianluca sia con Beppe. In quanto psicologo sportivo, con vent’anni di
esperienza alle spalle, ho capito che dietro a ogni percorso di successo, in
qualsiasi ambito, ci sono persone che credono in determinati valori. Valori
che, soprattutto, queste persone riescono a trasmettere e condividere. L’eroe,
nel citato immaginario, è colui che alza la Coppa del Mondo al cielo. Ma,
uscendo dallo stereotipo, l’eroe nella vita di tutti i giorni è soltanto una
persona che si mette in discussione. Di continuo. Aggrappandosi ai valori di
cui parlavo. Una persona che fa fatica, anche. Spesso, a torto, riempiamo le
nuove generazioni di un termine stupendo a livello spirituale eppure un po’
fine a se stesso: sacrificio. Io preferisco parlare di fatica. Perché la fatica
è un obiettivo di crescita. Ecco, le storie di Gianluca e Beppe raccontano
proprio questo: la scoperta del talento, la coltivazione e la valorizzazione
dello stesso».
Che rapporto c’è, visto che queste serate rientrano in
un contesto educativo, fra talento ed educazione appunto?
«Il talento è una bellissima opportunità che non
sempre dipende da noi, bensì dal contesto. L’educazione, per contro, è una
scelta, ed è legata ai nostri comportamenti. La narrazione non va incentrata
sull’eroe in quanto tale, ma sull’esempio. Solo così, poi, potremo applicare
questo esempio ad altri ambiti».
Significa che dobbiamo smettere di mitizzare i
calciatori?
«Diciamo di sì. Lo sport professionistico ha una
capacità a suo modo incredibile, quella di semplificare il concetto di squadra,
di leadership, di gestione delle crisi. Ma tutte queste semplificazioni, poi,
rischiano di portare a una banalizzazione diffusa. I miti, a volte, rischiano
di essere banali perché li vediamo e immaginiamo come qualcosa di lontano,
irraggiungibile, mentre – come detto – in qualsiasi ambito, sport compreso, a
fare davvero la differenza sono i comportamenti».
Può fare un esempio concreto?
«Da comasco, ho avuto la fortuna di partecipare a un’esperienza
stupenda, conclusasi in dicembre: ho accompagnato il Calcio Como dalla Serie D
fino alla Serie A. Ai giocatori lariani, ma è un concetto che ho espresso a
tutti, ripetevo sempre: non confondete i valori con le azioni e, ancora, con i
comportamenti. Non sono la stessa cosa. I valori sono il motivo per cui
facciamo qualcosa. Le azioni sono quello che facciamo. I comportamenti sono il
modo attraverso cui compiamo le azioni. Ed è proprio quest’ultimo aspetto a
fare la differenza. E questo perché i comportamenti sono visibili e oggettivi,
ma anche perché le persone credono molto di più a ciò che vedono rispetto a
quello che sentono. Se noi, di uno sportivo, diciamo che è un mito rischiamo di
perdere una grandissima opportunità. Di veicolare un messaggio vuoto. Lo sport
insegna che il valore dato a un obiettivo è più importante dell’obiettivo
stesso».


Di nuovo: immaginiamo che Zambrotta e Bergomi abbiano
molti esempi al riguardo.
«Beppe è il più giovane campione del Mondo nella
storia dopo Pelé. Aveva diciotto anni quando vinse a Madrid. È un messaggio
stupendo per le nuove generazioni: significa che non c’è un’età giusta o
sbagliata per assumersi delle responsabilità. Detto ciò, se uno pensa che
Bergomi è un mito perché ha vinto un Mondiale da giovanissimo allora la cosa
finisce lì. C’è l’impatto emotivo, c’è lo stupore. Ma, appunto, finisce lì. Se invece
aiuti i ragazzi a ragionare sul percorso, sulla metafora, sull’importanza dello
studio e degli allenamenti, allora puoi far passare un messaggio decisamente
più ampio. Ed è qui, proprio qui, che si cela la differenza fra mito ed esempio».
Domanda banale: come si può essere un campione o un
esempio nella vita di tutti i giorni? Non tutti diventano professionisti, in
Ticino ad esempio vale sempre il motto «uno su mille ce la fa».
«Per quasi cinque anni sono stato responsabile dell’area
psicopedagogica del settore giovanile del Lugano. In Italia, in media, solo l’1,5%,
massimo 2% dei ragazzi arriva al professionismo. E arrivare nel professionismo
non significa strappare un contratto milionario in Serie A ma, per dire, finire
in C. Il mio lavoro, il lavoro degli allenatori e dei formatori, va focalizzato
non su quell’1,5-2% ma sugli altri. Sui campioncini in erba o su chi promette
sin da piccolo è facile, facilissimo lavorare. Vedi delle qualità e insisti,
dando i necessari strumenti. Ma che ne è degli altri? Già».
È una forzatura o un luogo comune pensare che i
concetti applicati allo sport valgano nella vita di tutti i giorni?
«No, anzi, tutto ciò che applichi in campo è
traducibile. Ne parlavo con i giocatori della prima squadra della Pallacanestro
Cantù. Dicevo loro: ma avete mai riflettuto sul fatto che, quando passate la
palla, non siete responsabili solo di come l’avete passata ma anche su come la
riceve il vostro compagno? Se trasferiamo questo concetto, potentissimo, all’interno
di un’azienda vediamo che calza a pennello. Il passaggio di palla, in sostanza,
è una forma di comunicazione. E quando comunico, non sono responsabile soltanto
di quello che dico, ma anche di come viene recepito il mio messaggio. Eccola,
la grande risposta dello sport: il concetto di identità di squadra».
Concludiamo andando, in parte, fuori tema: hanno fatto
discutere, e pure parecchio, le
dichiarazioni di Alessandro Bastoni dell’Inter. Riportiamo il passaggio
principale: «Davanti a tutto metto i sacrifici che ho fatto. Per la gente in
generale i sacrifici li fanno solo gli operai o i muratori. Se non sei dentro a
questo mondo fai fatica a capire i sacrifici che fa un giocatore. Giochiamo
talmente tanto che siamo sempre lontano dalle famiglie. Il discorso si riduce
sempre a ‘‘eh ma guadagni milioni’’, però per me è una cosa sbagliatissima: il
tempo è una cosa impagabile e non te lo restituisce nessuno. Se facciamo ancora
i ritiri? Almeno uno a settimana, il sabato prima della partita, poi la
domenica giochiamo, lo stesso quando giochiamo il mercoledì. Dormo a casa
due-tre notti alla settimana. Poi i giorni in cui dormo a casa sono via
fino alle 14:00 per via degli allenamenti, quindi il tempo a casa è
veramente ristretto». Ha ragione o esagera?
«Innanzitutto, e questa è una cosa stupenda, i calciatori
di fascia alta negli ultimi tempi hanno iniziato, finalmente, a mostrare le
loro fragilità. A parlare. Ne parlavo con Cesc Fabregas al Como: mostrarsi fragile
è un grande, grandissimo atto di credibilità. Perché quando io, all’interno di
uno spogliatoio, mostro un lato sconosciuto automaticamente do il permesso agli
altri di fare la stessa cosa. Di più, quando ti scopri fragile poi scopri delle
capacità e delle potenzialità che nemmeno pensavi di avere. Bastoni, in fondo,
ha detto una cosa vera. Che vale per tutti: questo, per me, è stato il primo
anno in cui ho potuto festeggiare Natale e Santo Stefano in famiglia. Gli altri
anni, invece, lavoravo. I ragazzi dei settori giovanili nemmeno sanno se, un
domani, arriveranno lassù, ma intanto fanno una serie di sacrifici enormi: si
dividono fra studio e campo, perdendosi un periodo meraviglioso come l’adolescenza.
Bastoni, poi, ha detto un’altra verità: ai calciatori manca l’intimità. Per
fortuna, come spiegavo, oggi lo sport professionistico si sta aprendo. I
giocatori, grazie anche a figure come la mia, hanno iniziato a parlare della
loro quotidianità. A proposito di Bastoni, c’è anche il fattore social da
considerare: lui e tutti quelli come lui sono esposti, continuamente, a un’infinità
di aspettative. E alle persone non frega nulla di che cosa c’è dietro, conta
solo il risultato. In questi casi io parlo di tempo invisibile. Quello che non
si vede: il tempo che si passa in spogliatoio, ad allenarsi, in ritiro. Se non
impari a gestire questo tempo invisibile e se non riesci a contrastare le
aspettative, l’impatto e le conseguenze possono essere devastanti. Per questo,
anche per questo è necessario uscire dal contesto del mito. Un percorso come
quello di Bastoni richiede fatica. Tanta, tantissima fatica».