Letteratura

A.J. Cronin e la ricetta svizzera per la felicità

Cinquant’anni fa il popolare scrittore scozzese pubblicava il romanzo «Uno strano amore»
Archibald Joseph Cronin (1896-1981) debuttò come scrittore nel 1931 con «Il castello del cappellaio»
Léon Bertoletti
17.01.2019 06:00

«Cercasi medico inglese, celibe e preferibilmente al di sotto dei 30 anni, disposto ad assumere la direzione medica della Clinica e Casa di vacanze per bambini Maybelle, Schlewald, Svizzera. La conoscenza del tedesco e delle lesioni polmonari costituiranno titolo preferenziale. Offresi vitto, un confortevole alloggio e uno stipendio annuo di 500 sterline, pagabili in moneta inglese o in franchi svizzeri». Questo annuncio di giornale, letto con gli occhi arrossati al termine di un turno di notte, è la svolta esistenziale che il dottor Laurence Carroll aspetta. Lui, originario della Scozia, è proprio stufo di quell’ambulatorio di assistenza sanitaria nel Galles meridionale. Essere svegliato «la più parte delle notti, uscire barcollante nel mondo di ombre delle file interminabili di minatori, mezzo svestito e ancora addormentato». Insomma, gli sembra di essere «un musicista robot, magari il cimbalista, in una bizzarra sinfonia di sudore, lacrime, sudiciume e sangue». Parte così - con un repentino cambio di luogo, vita, circostanze e prospettive per il protagonista - il romanzo di A.J. Cronin Uno strano amore. Storia profondamente, spiritualmente, geneticamente rossocrociata. Sia per l’autore, che veramente era un medico scozzese e che veramente tra Lucerna e Montreux trascorse l’ultimo trentennio di vita prima della morte a Glion nel 1981 (aveva 84 anni) e della sepoltura a La Tour-de-Peilz, sempre nel canton Vaud. Sia per il personaggio, già presentato ai lettori qualche tempo prima nel testo La canzone da sei soldi e che nella Confederazione trova fine alla sua disperazione, uscita dal suo abisso, rinascita dopo la sconfitta, insomma un ambiente umano e professionale amorevole, confortevole, accogliente. Con la direttrice Hulda Müller che mai fa mancare a Herr Doktor una coppa di frutti del Vallese, la svedesona Lotte che a Zurigo se lo porta liberamente a letto concedendosi nei riposi dal suo impiego di hostess, infine la bella e sfortunata amica d’infanzia Cathy che spunta all’improvviso insieme al piccolo malaticcio Daniel e segnerà un’altra trasformazione, una diversa consapevolezza, un nuovo inizio. Certo Archibald Joseph Cronin è più ricordato per il capolavoro del 1937 La cittadella, per libri come E le stelle stanno a guardare e Le chiavi del regno (tutti trasformati in film) che per i trascorsi e gli stampati elvetici. Si è meritato stima e rispetto nella repubblica delle lettere, poi tra gli appassionati di trasposizioni anche teatrali e televisive, per i toni intensi, i risvolti drammatici, l’attenzione all’essere umano e alle sue fragilità, l’indignazione verso prepotenze e disuguaglianze, l’analisi della contraddittorietà personale e comunitaria, le meditazioni religiose addirittura, oltre che per lo straordinario talento descrittivo. Questo «strano amore» che veniva pubblicato esattamente cinquant’anni fa, nel 1969, nell’edizione inglese come pure in italiano da Bompiani, si allinea e si distingue. Lo si apprezza per la capacità di introspezione, perché sonda le anime alla ricerca di un sentimento oltre la fisicità passionale, perché scava onestamente nelle intimità alla scoperta psicologica delle radici. Tuttavia non sussiste comunanza caratteriale, per quanto siano entrambi giovanotti scozzesi, tra il pratico e disilluso dottor Laurence Carroll e l’utopista dottor Andrew Manson della Cittadella, dove l’avidità può prevalere sulla scienza medica. Differente è anche il dottor David Moray, l’abbiente egoistaccio che nell’Albero di Giuda ancora in Svizzera rispolvera l’educazione all’affettività. Restano sullo sfondo amarezze, asprezze, disavventure della classe e della società mineraria che hanno fornito luminosità alla trama di E le stelle stanno a guardare. Mentre il reverendo Francis non ha la forza e la compassione, l’audacia e il timore, l’eroismo e la pazienza di padre Francis Chisholm, il missionario cattolico in Cina delle Chiavi del regno (Le chiavi del Paradiso nel doppiaggio della pellicola con Gregory Peck). Il titolo originale del romanzo suona A Pocketful of Rye, una manciata di segale che editore e traduttore hanno preferito convertire in qualcosa di maggiormente romantico sulla copertina. Acquisisce dal dottore il suo significato all’inizio del volumetto: per l’uso terapeutico, come rimedio. «In piedi sul pavimento di cemento dell’ambulatorio centrale, con ancora indosso la mia tenuta da lavoro (pigiama, un vecchio cappotto e zoccoli da miniera) impacchettavo una bottiglia di sclerozio di segale cornuta - vera panacea per la placenta inerte - in una pagina strappata dal Lancet». Con frequenti ripassi ai ricordi, alcuni svarioni chissà quanto voluti e qualche eccesso di entusiasmo fortunatamente ridimensionato da un sano umorismo, l’evolversi della vicenda si manifesta naturalmente godibile. Tra «Schweitzer-Deutsch imparaticcio», mangiarini della tradizione culinaria locale, prelibatezze dolciarie, sorsate di Kümmel scambiato per Kirsch («quell’ottimo estratto delle migliori ciliegie svizzere»), lune pallide «come una fetta di Emmenthal» e le sempiterne notizie del radiogiornale: «Un altro incidente a un passaggio a livello. Un duplice omicidio nei Grigioni. Riconvocata a Ginevra la Conferenza per il disarmo. Inasprimento dei disordini nello Yemen. Servette aveva battuto Lucerna nella Coppa per due a uno. Previsto uno schiarimento delle condizioni meteorologiche». Zurigo viene dipinta come città «bella e ricca, che domina sul suo ampio fiume e sul lago omonimo con la dignità di un anziano uomo di Stato. Non è mai messa sottosopra da turisti a bocca aperta». All’aeroporto di Kloten è riservato un panegirico: «Il migliore d’Europa, meticolosamente efficiente, impeccabilmente pulito, con un ristorante di prima classe e uno snack bar in cui si serve il miglior caffè che io abbia mai bevuto». Per non dire dei paesaggi alpini incantevoli. «Sul pascolo davanti alla clinica, che si ergeva alta sulla pendice meridionale, i fior di croco autunnali, ancora aperti, chiazzavano il verde vivido dove ruscelletti di acqua fresca e limpida rimbalzavano l’uno sull’altro scendendo verso il fiume». Il trenino diretto a Davos fa «la sua lenta e vertiginosa arrampicata, avanzando tortuosamente, fermandosi ora su un raccordo prima della salita più ripida come per recuperare le forze, ma in realtà per lasciar passare» un altro convoglio. Sul Gotschnagrat, «una leggera spolverata di neve» anticipa il tramonto «passando dal dorato a un rosa carico». Poi ci sono, quasi «rimpiccioliti dalla montagna, i tetti di Schlewald Dorf» che comunicano «un senso di riposo: gemütlich era la parola esatta. Retorica a parte, era un posto delizioso». Ha «il potere distensivo di un flacone di tranquillanti. Mi piaceva viverci, e in effetti mi ci ero abbandonato anima e corpo». Del resto, nell’universo dell’immaginazione come in quello reale, è sempre questione di geografia, addii e bentornati. Il racconto favolistico non si sottrae dunque al dovere concreto di rappresentare comunque e dovunque la ricerca della felicità.