L'intervista

«Il clima è visto con gli occhi dell’interesse politico e non della scienza»

Dal «pareggio in extremis» ottenuto alla COP28 ai crimini di guerra ambientali, passando per il ruolo dei media nello scoperchiare l'ipocrisia degli Emirati Arabi Uniti e il ritardo rispetto all'Accordo di Parigi: con Antonio Nucci ripercorriamo, a mente fredda, ciò che è successo alla COP28
Gli attivisti chiedono a gran voce la fine dell'era dei combustibili fossili. © AP
Marcello Pelizzari
18.12.2023 13:38

Un voto monco. Così è stato definito il patto globale approvato una settimana fa circa alla COP28, la Conferenza delle Nazioni Unite sul clima tenutasi a Dubai. Da una parte l'invito – esplicito – ad abbandonare gradualmente le energie fossili: petrolio, gas e carbone. Una prima storica. Ma con grosse, grossissime limitazioni, come ha sottolineato il collega Dario Campione: i Paesi più sviluppati (e più inquinanti) e le nazioni produttrici di petrolio, infatti, non saranno obbligati a muoversi così velocemente. E questo perché il nuovo accordo non è giuridicamente vincolante e non può, da solo, costringere alcun governo ad agire. Dunque, come la mettiamo? Per capirne di più, a mente fredda diciamo, ci siamo rivolti ad Antonio Nucci, dottorando in comunicazione del cambiamento climatico presso l'Istituto di Media e Giornalismo (IMeG) dell'Università della Svizzera italiana.

Per cominciare, banalmente, come dobbiamo interpretare il rapporto finale di questa COP? C’è chi, ricorrendo al calcio, ha parlato di pareggio o peggio di sconfitta evitata in extremis. È corretto? A che punti siamo, soprattutto, pensando all’Accordo di Parigi
«Volendo usare una metafora calcistica, direi che si tratta di un pareggio nei minuti finali, che porta però ai tempi supplementari. Non siamo vicini, ma ci stiamo avvicinando. Quello che è chiaro è che finché si tratta solo di “belle parole” ci sarà poco da fare. Il limite immaginato nel 2015 a Parigi, i famosi 1.5°C, è lontano dall’essere raggiunto e, come ogni cosa che viene costantemente rimandata, servirà uno sforzo ancora maggiore per produrre lo stesso risultato. Molto probabilmente, se si inizieranno a mettere in atto delle politiche concrete, si potrà sperare in un 2°C in più».

Per la prima volta, almeno, l’elefante nella stanza – i combustibili fossili – è stato citato e inserito nel testo finale. Concretamente, però, i combustibili fossili sono ancora dominanti. Quanti e quali passi bisogna intraprendere per evitare che, paradossalmente, la narrazione di Al Jaber si riveli corretta? Tradotto: che cosa bisogna fare, finalmente, per uscire dal giogo del petrolio e affini, sia politicamente sia economicamente?
«Menzionare una progressiva riduzione dei combustibili fossili è sicuramente importante, ma ci sono voluti trent'anni per avere quelle due parole sul testo. Questi sono “non-binding agreements”, non c’è un obbligo a fare realmente qualcosa. Per portare avanti la transizione è necessario che i governi si impegnino a rispettare gli impegni presi. Da un punto di vista pratico, abbiamo visto quanto il nostro sistema sia fragile se sottoposto a shock esterni, come nel caso della guerra in Ucraina. Le rinnovabili sono sicuramente un’opzione da perseguire, ma in generale lo è tutto quello che può portare ad avere un’autonomia energetica sostenibile. C’è un sottile equilibrio tra quello che si vorrebbe fare e quello che si può fare, ma proprio a questo serve una politica lungimirante. C’è una bella frase scritta dietro l’USI: verbum laudatur si factum sequatur, le parole sono da lodare se sono seguite dai fatti».

È un caso che l’instabilità attuale, pensiamo a Iran e Russia, ma anche alla Cina, sia provocata anche da una componente energetica? O meglio: è un caso che questi Paesi si appoggino fortemente sui combustibili fossili?
«Nella storia è sempre stato così. La componente energetica è di primaria importanza quando si parla di questi Paesi, in particolare Russia e Cina hanno una elevata rilevanza geopolitica quando si parla di mercato energetico, basti pensare alla dipendenza dell’Europa verso il gas russo. È una scelta, anche perché sanno che una parte dell’Occidente farebbe fatica senza di loro. L’appoggiarsi fortemente ai combustibili fossili però non è solo una caratteristica dei Paesi sopraelencati: lo stato di Alberta, il principale produttore di petrolio del Canada, ha appena sfidato il governo di Ottawa proprio su una legge legata alla produzione di energia».

I crimini di guerra sono quasi sempre ambientali e sfortunatamente è un qualcosa a cui non si pensa. Basti ricordare gli incendi dei pozzi di petrolio durante la prima guerra del golfo

Parlando di Russia: l’Ucraina a questa COP ha proposto una campagna per sensibilizzare l’opinione pubblica e i Paesi alleati sui crimini ambientali commessi da Mosca in guerra. Come mai però questo tema è passato quasi inosservato? E quanto sarebbe importante riconoscere questi crimini come crimini contro l’umanità?
«I crimini di guerra sono quasi sempre ambientali e sfortunatamente è un qualcosa a cui non si pensa. Basti ricordare gli incendi dei pozzi di petrolio durante la prima guerra del golfo. Sarebbe importante riconoscerli come tali, ma è chiaro il motivo per cui il tema ambientale passa in secondo piano davanti alle atrocità di un campo di battaglia. Molti gruppi di attivisti stanno provando a spingere l’opinione pubblica verso questa direzione, ma solo il tempo ci potrà dire se questi crimini avranno mai lo stesso peso nella mente dell’opinione pubblica».

Mai come quest’anno la COP ha seguito il ritmo dei media. Sono stati gli scoop dei vari Guardian, Reuters e via discorrendo a dettare l’agenda della conferenza e, soprattutto, a spronare un finale diverso rispetto alla prima bozza. Significa che i media stanno davvero facendo da cani da guardia del sistema sul fronte del cambiamento climatico?
«Alcuni media si stanno sicuramente dimostrando tali ed è un lavoro fondamentale. È stato grazie a loro se sono state rese pubbliche le dichiarazioni del presidente Al Jaber sui combustibili fossili. Se non fosse stato per il Guardian che le ha divulgate, non sarebbe mai venuto fuori che il presidente della COP ha affermato che “non c’è alcuna scienza che indichi la necessità di un’eliminazione graduale dei combustibili fossili per limitare il riscaldamento globale a 1,5 C”. Come per tutto, però, si sta assistendo a una polarizzazione delle opinioni in chiave ideologica: il tema ambientale, essendo passato da politico a partitico, è visto con gli occhi dell’interesse politico e non della scienza».

In conclusione, quanto fa male pensare che la prossima COP si terrà in Azerbaigian? Si è discusso molto della presenza dei lobbisti del petrolio a Dubai e viene da pensare che a Baku non sarà diverso. Non stiamo perdendo tempo continuando ad assegnare edizioni a Paesi doppiogiochisti sul fronte energetico?
«È difficile essere ottimisti sul futuro se si guardano le passate edizioni. Nelle ultime due edizioni abbiamo visto Coca-Cola come sponsor principale di COP27, mentre il presidente della COP28 è il presidente della società petrolifera degli Emirati Arabi Uniti. In democrazia è però il popolo che decide e noi abbiamo la possibilità di “guidare” quelle che saranno le mosse, sia nazionali sia internazionali, in chiave ambientale. Dobbiamo provare a continuare a credere nella causa e sperare che parlare di questi temi, con sempre più frequenza, possa davvero contribuire al raggiungimento degli obiettivi prefissati».

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