«Il clima è visto con gli occhi dell’interesse politico e non della scienza»
Un voto monco. Così è stato definito il patto globale approvato una settimana fa circa alla COP28, la Conferenza delle Nazioni Unite sul clima tenutasi a Dubai. Da una parte l'invito – esplicito – ad abbandonare gradualmente le energie fossili: petrolio, gas e carbone. Una prima storica. Ma con grosse, grossissime limitazioni, come ha sottolineato il collega Dario Campione: i Paesi più sviluppati (e più inquinanti) e le nazioni produttrici di petrolio, infatti, non saranno obbligati a muoversi così velocemente. E questo perché il nuovo accordo non è giuridicamente vincolante e non può, da solo, costringere alcun governo ad agire. Dunque, come la mettiamo? Per capirne di più, a mente fredda diciamo, ci siamo rivolti ad Antonio Nucci, dottorando in comunicazione del cambiamento climatico presso l'Istituto di Media e Giornalismo (IMeG) dell'Università della Svizzera italiana.
Per cominciare, banalmente, come dobbiamo interpretare il
rapporto finale di questa COP? C’è chi, ricorrendo al calcio, ha parlato di
pareggio o peggio di sconfitta evitata in extremis. È corretto? A che punti
siamo, soprattutto, pensando all’Accordo di Parigi?
«Volendo usare una metafora calcistica, direi
che si tratta di un pareggio nei minuti finali, che porta però ai tempi
supplementari. Non siamo vicini, ma ci stiamo avvicinando. Quello che è chiaro
è che finché si tratta solo di “belle parole” ci sarà poco da fare. Il limite
immaginato nel 2015 a Parigi, i famosi 1.5°C, è lontano dall’essere raggiunto e, come
ogni cosa che viene costantemente rimandata, servirà uno sforzo ancora maggiore
per produrre lo stesso risultato. Molto probabilmente, se si inizieranno a mettere
in atto delle politiche concrete, si potrà sperare in un 2°C in più».
Per la prima volta, almeno, l’elefante
nella stanza – i combustibili fossili – è stato citato e inserito nel testo
finale. Concretamente, però, i combustibili fossili sono ancora dominanti.
Quanti e quali passi bisogna intraprendere per evitare che, paradossalmente, la
narrazione di Al Jaber si riveli corretta? Tradotto: che cosa bisogna fare,
finalmente, per uscire dal giogo del petrolio e affini, sia politicamente sia
economicamente?
«Menzionare una progressiva riduzione dei
combustibili fossili è sicuramente importante, ma ci sono voluti trent'anni per
avere quelle due parole sul testo. Questi sono “non-binding agreements”, non
c’è un obbligo a fare realmente qualcosa. Per portare avanti la transizione è
necessario che i governi si impegnino a rispettare gli impegni presi. Da un
punto di vista pratico, abbiamo visto quanto il nostro sistema sia fragile se
sottoposto a shock esterni, come nel caso della guerra in Ucraina. Le rinnovabili
sono sicuramente un’opzione da perseguire, ma in generale lo è tutto quello che
può portare ad avere un’autonomia energetica sostenibile. C’è un sottile
equilibrio tra quello che si vorrebbe fare e quello che si può fare, ma proprio
a questo serve una politica lungimirante. C’è una bella frase scritta dietro
l’USI: verbum laudatur si factum sequatur, le parole sono da lodare se sono
seguite dai fatti».
È un caso che l’instabilità attuale,
pensiamo a Iran e Russia, ma anche alla Cina, sia provocata anche da una
componente energetica? O meglio: è un caso che questi Paesi si appoggino
fortemente sui combustibili fossili?
«Nella storia è sempre stato così. La
componente energetica è di primaria importanza quando si parla di questi Paesi,
in particolare Russia e Cina hanno una elevata rilevanza geopolitica quando si
parla di mercato energetico, basti pensare alla dipendenza dell’Europa verso il
gas russo. È una scelta, anche perché sanno che una parte dell’Occidente
farebbe fatica senza di loro. L’appoggiarsi fortemente ai combustibili fossili
però non è solo una caratteristica dei Paesi sopraelencati: lo stato di
Alberta, il principale produttore di petrolio del Canada, ha appena sfidato il
governo di Ottawa proprio su una legge legata alla produzione di energia».
Parlando di Russia: l’Ucraina a questa COP
ha proposto una campagna per sensibilizzare l’opinione pubblica e i Paesi
alleati sui crimini ambientali commessi da Mosca in guerra. Come mai però
questo tema è passato quasi inosservato? E quanto sarebbe importante
riconoscere questi crimini come crimini contro l’umanità?
«I crimini di guerra sono quasi sempre
ambientali e sfortunatamente è un qualcosa a cui non si pensa. Basti ricordare
gli incendi dei pozzi di petrolio durante la prima guerra del golfo. Sarebbe
importante riconoscerli come tali, ma è chiaro il motivo per cui il tema
ambientale passa in secondo piano davanti alle atrocità di un campo di
battaglia. Molti gruppi di attivisti stanno provando a spingere l’opinione
pubblica verso questa direzione, ma solo il tempo ci potrà dire se questi
crimini avranno mai lo stesso peso nella mente dell’opinione pubblica».
Mai come quest’anno la COP ha seguito il
ritmo dei media. Sono stati gli scoop dei vari Guardian, Reuters e via
discorrendo a dettare l’agenda della conferenza e, soprattutto, a spronare un
finale diverso rispetto alla prima bozza. Significa che i media stanno davvero
facendo da cani da guardia del sistema sul fronte del cambiamento climatico?
«Alcuni media si stanno sicuramente dimostrando
tali ed è un lavoro fondamentale. È stato grazie a loro se sono state rese
pubbliche le dichiarazioni del presidente Al Jaber sui combustibili fossili. Se
non fosse stato per il Guardian che le ha divulgate, non sarebbe mai venuto
fuori che il presidente della COP ha affermato che “non c’è alcuna scienza che
indichi la necessità di un’eliminazione graduale dei combustibili fossili per
limitare il riscaldamento globale a 1,5 C”. Come per tutto, però, si sta
assistendo a una polarizzazione delle opinioni in chiave ideologica: il tema
ambientale, essendo passato da politico a partitico, è visto con gli occhi
dell’interesse politico e non della scienza».
In conclusione, quanto fa male pensare che
la prossima COP si terrà in Azerbaigian? Si è discusso molto della presenza dei
lobbisti del petrolio a Dubai e viene da pensare che a Baku non sarà diverso.
Non stiamo perdendo tempo continuando ad assegnare edizioni a Paesi
doppiogiochisti sul fronte energetico?
«È difficile essere ottimisti sul futuro se si
guardano le passate edizioni. Nelle ultime due edizioni abbiamo visto Coca-Cola
come sponsor principale di COP27, mentre il presidente della COP28 è il
presidente della società petrolifera degli Emirati Arabi Uniti. In democrazia è
però il popolo che decide e noi abbiamo la possibilità di “guidare” quelle che
saranno le mosse, sia nazionali sia internazionali, in chiave ambientale. Dobbiamo
provare a continuare a credere nella causa e sperare che parlare di questi temi,
con sempre più frequenza, possa davvero contribuire al raggiungimento degli
obiettivi prefissati».