«Densità differenti»: la poetica della materia alla Kromya Art Gallery
Con «Densità differenti», visitabile fino al 9 febbraio 2025, KROMYA Art Gallery ritorna a riflettere – dopo le mostre Materie Prime (2019), Materie Prime: Luce (2021) e Ossimori (2022) – sul tema della materia e del materiale che viene interpretato in modo caratteristico, inusuale e peculiare da sette artisti, diventando così elemento di senso centrale nella loro poetica.
Questo progetto vede impegnata la sede di viale Franscini 11 a Lugano della galleria con un allestimento che mette in risalto presenze e cicli di opere diversi: è l’occasione per un’immersione ampia e articolata della lettura dei contenuti innescati dal dialogo tra le esperienze degli artisti, qui presenti con lavori particolarmente indicativi del loro fare espressivo.
La scelta delle opere traccia l’itinerario immaginifico e riflessivo di una narrazione capace di alimentare quella vibrazione sensibile che le «superfici mosse» dei materiali sono in grado di suscitare, fino quasi a sfidare e oltrepassare il limite stesso della loro intrinseca fisicità e aprirsi a nuove suggestioni poetiche.
La messa in discussione delle coordinate abituali con cui si «percepisce» la densità tangibile di un materiale, ora così abilmente «trasformato», mette lo sguardo nella condizione di rivalutare l’immagine che gli si pone davanti e avvantaggia una speculazione riflessiva sulla sua identità. Il materiale, per ciascun artista qui presente, è proprio il tramite per «conquistare» la fiducia di chi osserva e per permettergli di abbandonare facoltà accertate e riconsegnare, all’immaginazione, all’intelletto e all’impressione ideale, quelle chiavi che ci garantiscono l’accesso al fascino attrattivo di una nuova bellezza. Una bellezza tutta da scoprire, tutta da esplorare oltre l’orizzonte che gli
artisti, ciascuno con il suo «segno» distintivo, ci delineano.
Riccardo De Marchi, Arthur Duff, Emanuela Fiorelli, Federico Ferrarini, Angela Glajcar, Luca Marignoni e Paola Pezzi, tra «pittura e scultura» intese secondo principi non convenzionali, promuovono un campionario di esperienze consolidate: qui, sperimentazione e ricerca individuale sono prova di una conoscenza profonda del materiale utilizzato, che viene piegato e spinto a superare i suoi stessi limiti per lasciare osservare l’impronta del vuoto e dell’assenza, della forza e dell’energia, della mimesi e della trasformazione, della gestualità casuale e misurata, della perfezione e dell’imperfezione ricercate. Tutti elementi questi che sono, infatti, frutto di un lavoro consolidato nel tempo con coerenza e determinazione. La materia allora riconosce ed esprime in loro il valore di altre verità che, non immediatamente modificabili, si prospettano come esempio misurabile, effettivo, concreto.
Si compongono di piccoli gesti, misurati e ritmati, le costellazione di Riccardo De Marchi (1964) che, su acciaio, alluminio, plexiglas o polietilene, dissemina insiemi di «buchi», secondo calibri diversi e altrettanto diverse linearità, fino a lasciare sempre in progressiva sospensione la deducibilità di una lettura alfabetico-scritturale il cui senso più intimo rimane da attendere. De Marchi impegna lo sguardo a interessarsi della densità delle cose, della loro peculiare risonanza più intima e interiore, con la possibilità di evocare l’infinito.
Con le corde annodate o con proiezioni luminose, Arthur Duff (1973) ha sempre imbastito una rete di correlazioni attive che mettono ogni sua opera a intercettare quel fruttuoso dialogo necessario e partecipato con lo spettatore. Sovvertendo le regole – ammettendo ad esempio il vuoto, la temporalità, i condizionamenti esterni – l’artista cerca di stabilire sempre una relazione imprescindibile con il luogo e l’ambiente, incontrando le accidentalità come parte fondante del suo lavoro che ha come fine ultimo la ri-composizione di una narrazione poetica.
In Emanuela Fiorelli (1970), il segno di una scrittura lineare è tracciato da un filo che percorre e sonda spazi cercando di esplorare le profondità di dimensioni più articolate: il rigore che si impone nel «minimo» della materia, ripetendo e moltiplicando itinerari e tragitti, non viene meno dal pronunciare l’imprevisto di un sensibilissimo «caos poetico». Ogni opera che porta la dimensione del quadro alla terza dimensione è l’impressione di una libertà attiva, propositiva e del tutto attenta a materializzare ritmi di volumi altrimenti insondabili.
Ritroviamo anche l’esercizio scultoreo di Federico Ferrarini (1976), che ripropone la vibrazione intensissima dei suoi «astri» che sanno ritrovare il valore e la presenza primordiale di una luce vitale, facendola zampillare direttamente dalla pietra. Se il «sole» è per lui elemento archetipale per antonomasia, non viene meno dal rinunciare a una rappresentazione stereotipata o scontata, anzi il suo gesto innerva sempre l’impalpabile luminosità che abbaglia la nostra suggestione attraverso consistenze davvero impensabili.
Una presenza nuova per la galleria è costituita dalla partecipazione alla mostra di Angela Glajcar (1970), che propone alcune delle sue più note serie di opere concepite con e nella carta. In lei questa materia vive in purezza, non ci sono elementi estranei o aggiuntivi, la potenza della sua scultura sta, quindi, nel gesto distruttivo-generativo dello strappo con cui modifica il singolo foglio. Generando un vuoto che si somma alla scansione di quello dei successivi elementi, le sue composizioni diventano piani volumetrici; sono spazi scanditi e sezionati dove l’effimero dell’assenza trova la propria verità attraverso la delicatezza violata della superficie della carta.
Di nuovo anche Luca Marignoni (1989), che accanto al legno – materiale di cui ha sempre dimostrato una conoscenza davvero profonda – presenta delle «cortecce», «pelli», «strutture ossee» o «exuvie» in metallo: queste due differenti consistenze sono prova di come, in lui, il senso di naturale e artificiale sia sempre presente come dialettica assertiva tra opposti. La formalità delle sue esecuzioni, perfette, sempre delicate e sottili negli spessori, sfida l’interpretazione dettata dalla nostra percezione spinta in quella zona limite dove tutto può sempre essere riconsiderato, persino l’identità stessa della materia.
Infine della sedimentazione, della stratificazione e dell’accumulazione di materie, che diventano presenze assonanti nella loro identità, ha fatto la propria cifra stilistica Paola Pezzi (1963). La sua manipolazione del materiale segue un flusso estetico costante, teso all’ascolto delle sue più intime istanze che, poi, l’artista trascrive nelle proprie composizioni. Nessuna «sostanza» classicamente e accademicamente artistica si è mai fatta abitudine nella sua azione, al contrario, l’adozione di elementi reali, ordinari, è per lei fonte di immaginazione ulteriore, così si muove a saziare il desiderio di rendere manifesto ciò che non è esistito mai prima.