Jacqueline Burckhardt: «La mia carriera? Come giocare con i sassi sull'acqua»
«Gesamtkunstwerk è una delle parole più importati del mio vocabolario, qualcosa che mi interessa moltissimo». Lo dice Jacqueline Burckhardt che ha fatto del suo lavoro una vera «opera d’arte totale» con diverse competenze. Non a caso il suo autorevole punto di vista è quello di restauratrice, storica dell’arte, docente, curatrice, autrice, editrice e organizzatrice di mostre. Questa signora con la cultura rinascimentale nel cuore è nata a Basilea nel 1947 e si è formata tra l’Istituto di Restauro di Roma e l’Università di Zurigo, dove vive. A Jacqueline Burckhardt l’Ufficio federale della cultura ha conferito il Gran Premio Svizzero d’arte Prix Meret Oppenheim 2024. Lo stesso riconoscimento, quest’anno, è andato a Marianne Burkhalter e Christian Sumi e a Valérie Favre. Al Corriere del Ticino, la storica dell’arte racconta le tappe più significative della sua carriera: dalla scoperta di Laurie Anderson, con l’inizio del programma di performance al Kunsthaus di Zurigo, alla fondazione della rivista Parkette, dalle opere site-specific curate al Novartis Campus a Basilea alle vetrate di Sigmar Polke alla chiesa di Grossmünster a Zurigo. È uscito in questi giorni nella traduzione inglese il libro strutturato a mo’ di pièce La mia commedia dell’arte, che si arricchisce di nuovi interessanti capitoli.
Jacqueline
Burckhardt, la sua figura comprende varie competenze professionali. C’è un fil rouge che unisce queste sue
varie attività nell’ambito dell’arte?
«Forse è l’interdipendenza delle mie varie
competenze. L’opera d’arte ha bisogno della cura della restauratrice, poi per
andare più a fondo c’è il lavoro del teorico, infine ci si dedica a promuovere
il fare artistico nell’ambito di apposite commissioni. Quando ho iniziato la
mia formazione all’Istituto Centrale del Restauro a Roma, dove c’erano storici,
archeologi, scienziati e giuristi, ho capito quanto l’opera d’arte necessiti di un insieme di competenze».
Lei è stata anche
editrice, insieme a Bice Curiger, della rivista Parkett. Come vede questa
esperienza?
«Poter fare questa rivista con un gruppo di
amici che avevano lo stesso interesse per l’arte e gli artisti è stata una
grande opportunità e un’eccitazione continua durata 33 anni, dal 1984 al 2017.
All’epoca il mondo dell’arte era più piccolo e più piatto di oggi e ci siamo
concentrati soprattutto sull’Europa, gli Stati Uniti e l’America del Sud che
rappresentavano i nostri campi di interesse e corrispondevano alle lingue che
parlavamo. Oggigiorno non potremmo più limitarci solo all’Occidente».
Può dare un‘idea
dell’atmosfera che si respirava nella redazione di Parkett tra Zurigo e New
York?
«Il team editoriale di Parkett ha sempre lavorato
a stretto contatto con artisti e autori internazionali. Abbiamo discusso con
loro il carattere di ogni volume della rivista. Volevamo andare a fondo alle
cose, fornire molto più che semplici informazioni, offrire riflessioni da punti
di vista diversi. Già prima della fondazione di Parkett, Bice Curiger, che in
seguito divenne caporedattrice di Parkett, e io eravamo in stretto contatto con
artisti come Enzo Cucchi, Sigmar Polke e Meret Oppenheim. Bice stava scrivendo
la prima monografia su Meret Oppenheim e all'epoca parlammo molto con lei di
come teorizzare una nuova rivista d'arte».
Parkett tentava di
cogliere lo Zeitgeist?
«Sì, Parkett era un tentativo di cogliere
lo spirito del tempo. Avevamo concepito la nostra rivista come una Kunsthalle
su carta».
Parkett era quasi
un’opera d’arte totale?
«Gesamtkunstwerk è una delle parole
importati del mio vocabolario, qualcosa che a me interessa moltissimo. Anche
per questo ho fatto tante cose diverse perché so che sono necessarie perché
l’arte possa nascere, essere vista e considerata».
Con Parkett avete
dato visibilità internazionale alla scena artistica svizzera che non era molto
conosciuta. Quali artisti con il suo lavoro ha portato all’attenzione del
pubblico?
«Diciamo che forse non abbiamo neanche
tanto pensato al pubblico. C’era piuttosto l’entusiasmo per certi fenomeni
artistici che volevamo far conoscere visto che la rivista Parkett era distribuita
a livello internazionale, scritta in inglese e in tedesco, con un ufficio a New
York e uno a Zurigo. Abbiamo parlato di artisti svizzeri come Fischli
&Weiss, Pipilotti Rist, Sylvie Fleury, Roman Signer e Markus Raetz quando
non erano ancora noti all’estero. Ho curato con Bice Curiger una mostra di
Meret Oppenheim al Guggenheim Museum di New York e quando l’abbiamo allestita
ci siamo rese conto che pochi avevano idea di chi fosse questa protagonista del
Surrealismo; conoscevano la sua famosa Tazza di pelliccia, ma non sapevano se
era una donna o un uomo, viva o defunta».
Come ha scoperto
Laurie Anderson che all’inizio degli anni Ottanta ha portato al Kunsthaus di
Zurigo?
«Siamo sempre in tanti a scoprire un
talento perché uno vede una cosa e lo dice all’altro e così si capisce che c’è
sempre qualcuno che forse l’ha vista prima. Laurie Anderson nel 1980 fece una
performance alla Biennale di Venezia nella chiesa di San Lorenzo che vidi: ne fui
entusiasta. Così ho subito portato l’artista newyorkese al Kunsthaus di Zurigo
dove a vedere la sua performance c’erano diciassette persone al massimo, tra
cui la mia famiglia e i miei amici. Dopo un anno l’ho invitata di nuovo quando
era già uscito nel frattempo il suo famoso singolo di debutto O Superman e
allora il Kunsthaus era pieno. Dopo abbiamo organizzato per altre due volte le performance
di Laurie Anderson nello stesso luogo, ma poi non si potevano più fare perché
il pubblico era diventato troppo numeroso e il Kunsthaus troppo piccolo. Ci
sono figure di cui si capisce subito la profondità e il genio e il piacere di
poterle presentare al pubblico è enorme. La conoscenza di Laurie Anderson per
me è stata un’esperienza essenziale, siamo rimaste amiche fino adesso e ci
sentiamo ancora. Ho imparato molto da lei e la sua frequentazione è un
arricchimento continuo».
Che impressione le
ha fatto insegnare storia dell’arte agli studenti dell’Accademia di
architettura di Mendrisio?
«Il bello è che mi sono sempre sentita
vicina agli architetti perché hanno grande senso pratico e interessi
interdisciplinari. Mi è capitato di
insegnare a studenti di storia dell’arte che erano molto meno vivaci di loro. All’Accademia di architettura a
Mendrisio c’erano molti studenti stranieri fra cui italiani e alcuni arrivati con il programma Erasmus. Mi sono sembrati interlocutori colti con una base di conoscenza
umanistica e una certa apertura mentale».
Quale è stato il
suo contributo al Novartis Campus a Basilea, voluto da Daniel Vasella,
dove è arrivata dopo Harald Szeemann?
«All’epoca si era deciso di trasformare la
zona di produzione della ex Sandoz a Basilea in un campus di ricerca e
amministrazione. La fusione delle industrie farmaceutiche
Ciba-Geigy e Sandoz nella Novartis ha comportato nuove costruzioni
progettate da celebri architetti fra cui dei Pritzker Prize e l’intervento di
paesaggisti come Günther Vogt su un masterplan urbanistico di Vittorio Magnago
Lampugnani, un architetto italiano di altissima cultura. In questo contesto si
volevano inserire
delle opere d’arte site-specific. Nel terreno sono stati rinvenuti anche dei
reperti celtici e si evidenziavano delle stratificazioni interessantissime
della storia di Basilea. Ho riflettuto molto su quali artisti potessero essere
adatti a dialogare con la storia, con le nuove architetture e con il paesaggio.
Laurie Anderson ha creato un’installazione sonora in un piccolo parco davanti a
un edificio decostruttivista di Frank Gehry. Le sorgenti di suoni sono nascoste
negli alberi e i suoni si notano appena. Ma tutto a un tratto si avverte un
cambiamento nell’atmosfera quasi a livello sottocutaneo».
A cosa sta
lavorando?
«Di recente ho lavorato molto sul libro La
mia commedia dell’arte scritto e pubblicato
nel 2022, che ora esce anche nella traduzione inglese con l’aggiunta di alcuni
miei articoli. Nel volume ci sono una lunghissima conversazione con Juri Steiner,
direttore del Museo d’arte di Losanna e un intermezzo con i lavori di artisti come
Pipilotti Rist, Katharina Fritsch e Laurie Anderson e di altre persone che sono al
centro del mio universo. Poi ho iniziato un libro su Giulio Romano con il
mio mentore Kurt W. Forster, professore di storia dell’arte e dell’architettura,
scomparso lo scorso gennaio. È stato direttore-fondatore del Getty Center for the History of the Arts and
Humanities poi diventato Getty Research
Institute. Il libro è basato sulle conversazioni tra noi due a mo’ di
pièce teatrale».
Quali altri
impegni editoriali la attendono?
«Sto scrivendo di Nina von Albertini,
ingegnere agronomo che negli anni Ottanta ha realizzato dei gioielli d’argento
influenzati dalla cultura Punk e New Wave, mentre oggi lavora sul paesaggio in
montagna. È interessante vedere come la sua ricerca sia passata dal corpo umano
a quello della natura».
Come vede a
distanza di anni le vetrate di Sigmar Polke alla chiesa di Grossmünster di
Zurigo?
«Quello forse è stato il lavoro
site-specific più intenso che ho curato con un artista. Questi dodici vetrate
realizzate in tre anni in parte con l’agata e la tormalina sono il suo ultimo
lavoro e testamento spirituale. Lavorando con Sigmar Polke ho sperimentato la
sua enorme capacità artistica e le sue dimensioni intellettuali che hanno anche
tanto colpito la pastora della chiesa. Polke aveva un profondo interesse per le
scienze naturali, per le pietre e i loro valori simbolici».
La sua carriera è
ricca di esperienze profonde che restituiscono un senso di levità. Come
riesce a renderla?
«Questa l’ho imparata dagli italiani
soprattutto leggendo Il Cortegiano di Baldassare Castiglione che parla del
concetto della sprezzatura. Lui ha inventato questa parola che corrisponde alla
disciplina del fare le cose con leggerezza nascondendo la fatica. Ciò rende il
comunicare e il vivere insieme più prezioso e piacevole. Kurt Forster ha
definito la sprezzatura in un modo bellissimo ricordando che è come quando si gioca
con i sassi che saltano sull’acqua ovvero quando uno riesce a far danzare
insieme due elementi per natura opposti come l’acqua e la pietra».