Quando i mostri e i robot di H.R. Giger occuparono il San Gottardo
Una mostra al Mastio della Cittadella di Torino mette in scena l’universo di Hans Ruedi Giger che va oltre Alien, la sua creatura più famosa. Il mostro, che gli valse l’Oscar per gli effetti speciali del film di Ridley Scott, ha oscurato il talento multiforme e la vasta produzione dell’artista svizzero (Coira, 1940- Zurigo, 2014). A dieci anni dalla sua morte l’esposizione «Beyond Alien: H.R. Giger», nella città sabauda fino al 16 febbraio, celebra il maestro che ha mutato i contorni del surrealismo, le sembianze dell’horror fantascientifico e i confini dell’immaginario contemporaneo. In mostra a Torino ci sono oltre settanta pezzi originali fra dipinti, sculture, disegni, fotografie, oggetti di design e video provenienti dal Museo H. R. Giger a Gruyères e da collezioni private. Il percorso è suddiviso in varie sezioni: il cinema, la musica, il surrealismo e l’orrore cosmico.
Con l’extraterrestre xenomorfo, che esalta lo stile biomeccanico e comunica una sensazione tra il bello e il terribile, ci si inoltra nel mondo dell’artista svizzero amato da cineasti e cantanti. Marco Witzig, tra i massimi esperti del maestro, ci ha raccontato della sua passione smisurata per l’opera di Giger con il quale ha collaborato negli ultimi quindici anni della sua vita. Il curatore e critico d’arte zurighese ha una collezione unica che vanta alcuni pezzi ritrovati che si pensava fossero perduti. Non mancano gli aneddoti sui video con Debbie Harry, ma anche sul microfono per i Korn e la prima sedia per Dune, il film mai girato di Alejandro Jodorowsky.
Come è stata ideata la
mostra dedicata a Giger in corso a Torino?
«Era da tempo che
volevamo fare una mostra in Italia su Giger ed è arrivato il momento giusto
perché sono trascorsi dieci anni dalla morte dell’artista e di recente è uscito
anche l’ultimo film della saga di Alien. L’esposizione, in collaborazione con
il Museo nazionale del cinema, si tiene nel suggestivo Mastio della
Cittadella di Torino e dà un’idea più completa del mondo di Giger con il meglio
della sua produzione. Ci sono le fasi differenti del suo lavoro con i
disegni degli anni Sessanta, il periodo di Alien e le opere degli anni Settanta. E non manca il rapporto con il cinema e con la musica. Si vedono pezzi provenienti dal Museo Giger e
altre opere della mia collezione. Alla fine la mostra è un mix di sculture e
quadri originali con alcune grafiche e riproduzioni».
Giger è stato un incredibile disegnatore, un virtuoso dell’aerografo, un
pittore, uno scultore e non solo. Che cosa rende unico questo artista?
«Quello che faceva di lui un personaggio interessante è che non era solo uno
scultore o un pittore o un designer, ma apparteneva a quella categoria rara
di artisti che sono dei creatori di mondi. Giger aveva una visione chiara del
suo universo e realizzava opere che ti consentivano di entrarci. Se si guardano
le foto della sua casa, la si vede interamente coperta da quadri e dalle sue
opere. È così anche il museo a Gruyères che gli addetti ai lavori criticano
perché forse è troppo pieno, ma alla fine è unico e diverso».
Il museo HR Giger dà l’idea di un mondo parallelo. Sembra di entrare in un
girone dantesco…
«Esatto, lo stesso succede anche nei bar che Giger ha realizzato non solo in
Svizzera. Adesso ce ne sono ancora due: uno a Gruyères e
l’altro a Coira. Entrando in questi locali si fa ingresso nel mondo di Giger».
Ci può dire qualcosa dei bar che l’artista fece nel mondo?
«Giger aveva realizzato un bar a Tokyo, alla fine degli anni Ottanta, che
poi è sparito con la crisi immobiliare agli inizi degli anni Novanta. Poi c’era
un Giger bar a New York che oggi non c’è più. Invece nel sud della Cina hanno
realizzato, nel 2017 circa, un bar intero, perfettamente copiato, senza nessuna
autorizzazione, del quale si vedevano molte foto online. Volevo andare di
persona a verificare, ma poi è arrivata la pandemia e il bar falso è scomparso».
Quali pezzi in mostra a Torino sono più rappresentativi dell’universo
gigeriano?
«Le sezioni coprono praticamente tutta la produzione di Giger. Tra i pezzi
più iconici del cinema c’è il Necronom di Alien con i disegni e la prima sedia
Harkonnen, di quarant’anni fa, e un modello del tavolo realizzato per il film Dune
di Jodorowsky».
Ci sono dei capitoli meno conosciuti dell’opera di Giger e sicuramente non
meno intriganti come quello della musica. Che cosa troviamo in esposizione?
«C’è un modello originale del supporto del microfono realizzato negli anni Novanta
per Jonathan Davis, leader dei Korn, la band nu metal californiana. Poi c’è la
scultura bronzea della Nubian queen di quasi 2 metri di altezza.
Un’opera che segue il successo inaspettato dell’oggetto d’uso».
Come nacquero invece le copertine degli album e la maschera per Debbie
Harry?
«Dopo aver ricevuto l’Oscar nel 1980 Giger tenne due esposizioni a New York
e a una di queste incontrò Debbie Harry che era affascinata dalla sua arte. Un
po’ come successe con Ridley Scott che gli disse: ''Voglio che tu faccia il
mostro del film Alien'', Debbie venne alla mostra e disse a Giger ''ciao, voglio
che realizzi il mio prossimo video''. All’epoca era ancora tutto più immediato.
Il video per il debutto da solista di Debbie Harry era una grande produzione e
la cantante stette per due o tre mesi in Svizzera a casa di Giger. Per
l’occasione nacquero dei pezzi speciali come la Maschera in metallo (1981)
esposta in mostra. La copertina di KooKoo, con il volto della cantante trafitto
da spilloni, venne censurata in Gran Bretagna. Un altro dettaglio è che la
frontwoman dei Blondie da icona pop bionda platino divenne nera corvina. Chris Stein ha
documentato in un libro, con foto e testi, la metamorfosi di Debbie Harry
curata da Giger».
Che rapporto c’era tra Giger e Debbie Harry?
«Loro due erano amici e rimasero tali fino alla morte dell’artista. L’ultima
volta che Hans Ruedi andò a New York incontrò Debbie».
Che cosa può dire a proposito di Giger e le donne?
«Giger amava le donne e la vita e trattava i temi che hanno maggiore
impatto emotivo sulla gente, come la morte, il dolore e il sesso. Le donne
nelle sue opere appaiono come degli esseri divini, degli angeli o delle dee,
mentre gli uomini sono o dei diavoli repellenti o dei poveri mutanti. A tutti
quelli che dicono che Giger era sessista rispondo che lui ammirava le
donne e le esaltava».
Che rapporto ebbe Giger con Li
Tobler, sua prima moglie, scomparsa tragicamente e immortalata nel meraviglioso
ritratto del 1974?
«Li e Hans Ruedi si sposarono giovani. Il loro era un grande amore, però tra
i due c’era anche un rapporto difficile perché lei era psichicamente un po’
instabile. Negli anni Settanta la moglie Li influenzò alcuni dei quadri più
famosi di Giger. Se si guardano bene le immagini femminili nei suoi ritratti corrispondono sempre
alla partner del momento. Dopo Li Tobler ci fu, intorno al 1980, Mia Bonzanigo,
la seconda moglie. Poi dalla fine degli anni Novanta i ritratti di Giger sono
quasi tutti riferiti a Carmen Scheifele, la terza moglie e attuale direttrice
del Museo a Gruyères. Ogni donna ha lasciato delle tracce nella sua arte».
Che cosa può svelare
della collaborazione di Giger con Jodorowski per Dune, il film leggendario mai
girato?
«Alejandro Jodorowski, che viveva a Parigi, aveva ambizioni un po’ folli e voleva
fare un film di 15 ore e lavorare con i Pink Floyd, Salvador Dalì, Orson Welles
e altri. Riunì artisti molto innovativi negli anni Settanta come Mobieus, che
ha fatto lo storyboard di Dune, e Giger. Jodorowski li aveva affascinati tutti, ma
alla fine non poteva pagarli. Giger con i soldi guadagnati con Alien fece in
seguito per conto suo le sedie harkonnen che aveva ideato per il film Dune».
A cosa è riconducibile la scultura dal titolo «Species» in resina, lattice
e vetro?
«Dopo Alien ci sono stati tanti progetti di film, ma pochi sono stati
realizzati. Giger negli anni Novanta per la saga di Species ha plasmato una
bella donna, extraterrestre che poi si trasforma in un mostro. Alla fine il
film fu un successo, ma Giger era piuttosto schivo e su Species, realizzato in
California, non ebbe la stessa influenza che esercitò su Alien».
Come è nata la sua passione travolgente per l’universo di Giger?
«Mia mamma mi portava alle esposizioni come fanno solitamente i genitori e all’età
di 12 anni vidi la prima retrospettiva di Giger al Centro
Culturale Seedamm dove rimasi affascinato e quasi
ipnotizzato nel vedere le sue opere».
Lei ha svolto anche un minuzioso lavoro di investigazione per trovare dei pezzi
di Giger che si ritenevano perduti. Quale di questi vediamo a Torino?
«In mostra c’è un grande quadro iconico dal titolo Mutant che non era mai
stato documentato e che per puro caso ho ritrovato in Svizzera. L’opera è
riapparsa dieci anni fa quando è morto Giger».
Quale progetto in mostra forse è meno conosciuto?
«È bello trovare in mostra anche una storia pazzesca intitolata Il mistero
del San Gottardo. Giger ha fatto uno storyboard intero dove ci sono dei mostri
mutanti o robot biomeccanici che occupano il Gottardo e che attaccano la gente
in una Svizzera distopica. È proprio un delirio alla Giger! Di quello ci sono i
disegni, ma abbiamo anche le litografie originali. C’è un libro e un progetto
di film mai realizzato».
Quale era l’idea di cinema di Giger?
«L’artista era un grande fan del cinema del quale aveva anche una visione in
3D che si nota nei suoi quadri realizzati artigianalmente. Tanti effetti che oggi
si vedono sul grande schermo sono resi a computer, mentre l’arte in 3D di Giger
è stata realizzata cinquant’anni fa, prima che si parlasse di digitale».
Che tipo era Giger?
«Ho conosciuto Giger nel 2000 e negli ultimi anni della sua vita ho lavorato
a stretto contatto con lui. Non si deve confondere la persona con la sua arte. Posso
dire che il suo modo di esorcizzare gli incubi era quello di visualizzarli.
Giger ha trasformato la paura in qualcosa che rivela anche un’eleganza estetica.
Ad esempio lui era un grande fan di Michelle Pfeiffer e allo xenomorfo più
famoso del cinema ha disegnato le sue labbra».