Il personaggio

Benedetti Michelangeli, artista francescano fuori dal comune

Ricorrono domenica i cento anni dalla nascita del grande pianista che visse per decenni in Ticino
Arturo Benedetti Michelangeli durante il récital tenuto nell’aprile 1981 all’Auditorio di Besso. (© CDT/ARCHIVIO)
Carlo Piccardi
04.01.2020 06:00

Ciò che più sorprese alla morte di Arturo Benedetti Michelangeli fu il funerale nella chiesetta di Pura (il villaggio presso Lugano in cui da anni abitava), con una cerimonia priva di fasto e l’inumazione in una modesta tomba, per sua volontà, priva di lapide. La cronaca di quella circostanza servì a gettare una luce di verità sulla sua vicenda esistenziale e artistica. Essa rivelava la religiosità di un uomo al servizio della musica, intesa non come ideale estetico (fallacemente esaltato dalla suprema bellezza del suono che riusciva a produrre) ma concepita come transizione verso una dimensione di profondo spessore spirituale, sulla spinta del sentimento meditato e circoscritto al modello francescano dell’umiltà, della sobrietà e della rinuncia.

Circondato dall’essenziale

Sapere che si circondava solo dell’essenziale in una camera spoglia, con un libro di meditazioni, un rosario accanto al letto e un crocefisso alla parete faceva capire molte cose. Faceva capire soprattutto il dramma di un artista più di altri consapevole della vanità del mondo, costretto per mestiere a confrontarsi con le sue regole fatue.

In verità proprio la sua coerenza, il suo rigore nel mettere tutto al servizio non del rapporto ipnotizzante col pubblico ma del messaggio musicale, lo portarono ad essere male interpretato, a subire oltre misura la divinizzazione. Più egli rifuggiva dalla mondanità e più diventava argomento di pettegolezzo, più esigeva in fatto di condizioni ottimali (in funzione dei risultati che si prefiggeva) e più appariva eccentrico e pretesto per speculazioni giornalistiche.

Nel suono egli cercava l’essenzialità, non come distillazione del mago alchimista, ma come testimonianza della volontà di sottomissione al principio di povertà, di spoliazione da ogni orpello, da ogni finzione. Lo rivelava il suo rapporto col pianoforte, con uno strumento non considerato come semplice mezzo per realizzare un’idea musicale, ma come organismo vivente, colto nella sua natura di manufatto, non prodotto in serie, ma come espressione dell’opera dell’uomo. La messa a punto del pianoforte prima di ogni concerto, la calibratura lungamente saggiata, mettevano in risalto l’attenzione per il lavoro dell’artigiano, il rispetto che a questi riservava come ad un umile servitore cosciente della sua piccola ma essenziale parte nel tutto. Ora sappiamo che tale riduzione alla dimensione artigianale non era solo un mezzo per ottenere abbaglianti esiti sonori, ma anche la realizzazione di un principio quasi francescano, ad umanizzare in senso didascalico la figura di un grande artista.

La tastiera come un’orchestra

La mia memoria di testimone va al programma delle serate luganesi dell’aprile 1981, la cui registrazione è stata diffusa nel 2006 in uno speciale «Amadeus DVD», nel quale, accanto alle sonate op. 22 e op. 26 di Beethoven e alla Sonata in la minore D 537 di Schubert, spiccavano le Quattro Ballate op. 10 di Brahms, nelle quali la ricerca dei colori produceva soluzioni capaci di far risuonare la tastiera come un’orchestra. Tale arte non aveva origine solo in un talento unico, bensì nel rigore con cui esso era amministrato e che di Benedetti Michelangeli faceva un artista particolare. Era infatti evidente che l’efficacia del suo impareggiabile messaggio non sarebbe potuta essere trasmessa se egli si fosse assoggettato alle regole che ai moderni interpreti impongono frenetici itinerari concertistici, sbattuti su uno strumento (il pianoforte) perfettamente intercambiabile e perciò negato nell’autentica personalità sonora di un esemplare che non è mai uguale all’altro.

Capricci o coraggio?

Quando nel caso di Michelangeli si parlava di concerti disdetti, di presunti capricci, di un gioco a rimpiattino con un pubblico privato all’ultimo momento delle sue esibizioni, non si pensava mai al coraggio di una scelta che rifiutava la prospettiva che ha ridotto il concertismo a fenomeno consumistico. Il rapporto con il pianoforte, strumento che egli usava portarsi appresso non solo affidandolo alle competenti cure di tecnici di fiducia ma dettando i criteri di adattamento delle sue caratteristiche alle necessità acustiche del luogo, andava infatti al di là delle livellanti abitudini odierne, per ritrovarvi invece il principio di una compenetrazione tra artista e mezzo d’espressione elevata a priorità. La rarità delle sue pubbliche esibizioni, al di là del presunto carattere schivo, era da considerare innanzitutto come recupero di quella fondamentale dimensione d’attesa che l’inflazionata offerta di grandi nomi, rimbalzanti da un festival all’altro, ha eliminato come molla essenziale capace di attivare il meglio dell’attenzione degli ascoltatori. Nel suo caso, essa corrispondeva a una esigenza individuale dell’interprete, deciso a rifiutare situazioni ripetitive di comoda formalizzazione del risultato, per rivivere ogni volta dall’inizio l’intenso processo di acquisizione di un traguardo stilistico raggiungibile solo attraverso la maestria coniugata con dosi di concentrazione non comuni.

Aprile 1981: l’Auditorio RSI blindato per 5 giorni

Nelle tre serate dell’aprile 1981 a Lugano fui impegnato in prima persona, essendo l’ultima delle tre registrata dalla TSI dove allora rivestivo la funzione di produttore musicale. La responsabilità era grande, poiché nota era la

suscettibilità dell’artista di fronte al minimo accidente che potesse turbare le sue esecuzioni. L’Auditorio di Besso fu blindato per cinque giorni con guardie attente a non far entrare nessuno che disturbasse Benedetti Michelangeli mentre lavorava con l’accordatore sui pianoforti portati dalla fidata ditta Fabbrini che sempre lo seguiva. Alle 9 di mattina egli era già sul posto a collaborare meticolosamente alla preparazione dello strumento, uscendone solo a tarda sera. Dopo ognuno dei tre recital vi rimaneva oltre la mezzanotte, a calibrare i tasti, a provare e riprovare quale fosse la distanza più opportuna tra i martelli e la cordiera, a regolare i pedali, gli smorzatori e tutto quanto potesse servire a mettere a punto il suono.

Non era l’azione di un maniaco. Quello che sembrava il capriccio di un divo, era coerente con un obiettivo di perfezione, che tuttavia aveva il rovescio in una condizione di umiltà.