Società

Bocciati asterischi e schwa: no al politically correct nel linguaggio istituzionale

Nelle raccomandazioni per la scrittura degli atti giudiziari, l'Accademia della Crusca lancia il monito: «Non sopravvalutate le mode culturali, il plurale maschile è inclusivo»
Michele Montanari
21.03.2023 13:45

Il linguaggio «inclusivo» molto in voga sui social media incassa una sonora bocciatura quando si tratta di carte istituzionali. L’Accademia della Crusca lo scorso 9 marzo ha infatti fornito una serie di raccomandazioni rispondendo a un quesito del Comitato pari opportunità del Consiglio direttivo della Corte di Cassazione sulla scrittura rispettosa della parità di genere negli atti giudiziari. Sintetizzando: niente asterischi e schwa (l’asterisco «va escluso tassativamente al posto delle desinenze dotate di valore morfologico», si legge), niente articolo davanti al cognome femminile (oggi, spiega l’Accademia, è «considerato discriminatorio e offensivo non solo per il femminile, ma anche per il maschile») ed evitare le «reduplicazioni retoriche» (ad esempio «le lettrici e i lettori», «le cittadine e i cittadini»). Promossi invece il plurale maschile non marcato «inclusivo» e i nomi di professione declinati al femminile (avvocata, cancelliera, procuratrice, ecc...).

Tra discriminazione e politicamente corretto

La massima istituzione linguistica italiana, presieduta dal professore Claudio Marazzini, prima di prendere posizione precisa: «A chi opera nel settore del diritto e dell’amministrazione della giustizia, così come a chi opera nella burocrazia delle istituzioni pubbliche, è oggi richiesto di scrivere in modo chiaro e sintetico secondo regole per le quali è necessario un addestramento attento e continuo che ne renda naturale e automatico il rispetto». Aggiungendo: «I principi tradizionalmente invocati per stabilire le regole o raccomandazioni per un uso della lingua rispettoso della parità di genere sono i seguenti: 1) evitare in maniera assoluta il maschile singolare perché a torto considerato non marcato (da alcuni definito inclusivo o, meno correttamente, neutro); 2) evitare l’articolo determinativo prima dei cognomi femminili, perché genera un’asimmetria con quelli maschili; 3) accordare il genere degli aggettivi con quello dei nomi che sono in maggioranza o più vicini all’aggettivo; 4) usare il genere femminile per i titoli professionali che sono riferiti a donne». A chi sostiene che un mancato riferimento ai due generi, maschile e femminile, sia discriminatorio, e l’uso di asterischi e lo Schwa sia un modo per sanare «un’ingiustizia storica e ripulire la lingua dai residui patriarcali», la Crusca risponde che «una simile concezione della lingua non è universalmente condivisa, e anzi c’è chi vede il pericolo di un eccesso di intervento», anche perché «le moderne neuroscienze hanno messo in discussione il fatto che la lingua costituisca di per sé un condizionamento e un filtro rispetto alla percezione dei dati empirici reali». E aggiunge: «Illustri esponenti della cultura del secondo Novecento, come Lévi-Strauss e Dumézil, hanno insistito sul valore puramente formale del genere grammaticale, in quanto meccanismo strutturale della lingua ai fini del suo elementare funzionamento, molte volte totalmente estraneo alla componente del sesso. I principi ispiratori dell’ideologia legata al linguaggio di genere e alle correzioni delle presunte storture della lingua tradizionale non vanno dunque sopravvalutati, perché sono in parte frutto di una radicalizzazione legata a mode culturali. D’altra parte queste mode hanno un’innegabile valenza internazionale, legata a ciò che potremmo definire lo “spirito del nostro tempo”, e questa spinta europea e transoceanica non va sottovalutata. Da ultimo, si deve prendere atto della connessione tra il tentativo di definire le regole di un linguaggio che dovrebbe escludere ogni vera o presunta discriminazione di genere, e l’aspirazione più ampia a un linguaggio ‘politicamente corretto’, tale da restituirci una lingua edenica e immacolata. Anche questa aspirazione ha dato luogo a polemiche, specialmente quando ha imboccato la deriva che porta verso la cosiddetta “cultura della cancellazione”». Insomma, evitare di lasciarsi condizionare da chi sostiene il politically correct a tutti i costi, con il rischio di sfociare nella censura. I linguisti però sottolineano: «Ovviamente va tenuta distinta la libertà della lingua comune nel suo impiego individuale, nella varietà degli stili e delle opinioni, dall’uso formalizzato da parte di organismi pubblici (tra cui quello giuridico, ndr)».

Il caso degli asterischi e lo schwa

Elementi come gli asterischi e lo schwa, vengono spesso utilizzati sui social network, ma oggi ci sono esperimenti anche nella letteratura e nelle comunicazioni più formali. Secondo l’Accademia della Crusca questi segni eterodossi vanno esclusi, in quanto «la lingua è prima di tutto parlata, anzi il parlato gode di una priorità agli occhi di molti linguisti, e ad esso la scrittura deve corrispondere il più possibile. Inoltre il rapporto tra scrittura e parola è fissato da una tradizione consolidata nei secoli, che non può essere infranta a piacere. È da escludere nella lingua giuridica l’uso di segni grafici che non abbiano una corrispondenza nel parlato, introdotti artificiosamente per decisione minoritaria di singoli gruppi, per quanto ben intenzionati. Va dunque escluso tassativamente l’asterisco al posto delle desinenze dotate di valore morfologico (car* amic*). Lo stesso vale per lo schwa, l’ǝ dell’alfabeto fonetico internazionale, che rappresenta la vocale centrale propria di molte lingue, non presente in italiano, ma utilizzata in alcuni dialetti della Penisola. La lingua giuridica non è sede adatta per sperimentazioni innovative minoritarie».

Il plurale maschile include, non prevarica

L'Accademia della Crusca fa poi notare: «In una lingua come l’italiano, che ha due generi grammaticali, il maschile e il femminile, lo strumento migliore per cui si sentano rappresentati tutti i generi e gli orientamenti continua a essere il maschile plurale non marcato, purché si abbia la consapevolezza di quello che effettivamente è: un modo di includere e non di prevaricare. Ugualmente si potrà usare il maschile non marcato quando ci si riferisca in astratto all’organo o alla funzione, indipendentemente dalla persona che in concreto lo ricopra o la rivesta». Per l’istituzione linguistica, dunque, il maschile plurale non marcato continua ad essere la soluzione migliore, bocciando anche le reduplicazioni retoriche: «Se lo si volesse annullare interpretando il maschile in maniera assurdamente rigida, occorrerebbe rivedere tutti i testi scritti italiani, compresi quelli giuridici. Occorrerebbe insomma riscrivere milioni di pagine, a cominciare dalla Costituzione della Repubblica, che parla di “cittadini”, senza reduplicare “cittadini e cittadine”, ma intendendo che i diritti dei cittadini sono anche quelli delle cittadine».