L’intervista

Buon compleanno Bella Gioia!

In questi giorni il celebre comico italiano Renato Pozzetto festeggia i suoi primi 80 anni - Lo abbiamo incontrato nel suo «buen retiro» sul Verbano per una chiacchierata tra presente e ricordi - VIDEO
© CdT/AC
Andrea Colandrea
Mauro Rossi
Andrea Colandrea,Mauro RossieRed. AgendaSette
12.07.2020 10:14

È stato un anno davvero prolifico, sul fronte artistico, il 1940. Seppur nel mezzo di una delle maggiori tragedie dell’umanità, in quel periodo sono infatti venuti alla luce una lunga serie di personaggi che hanno giocato un ruolo importante nel mondo della cultura e dello spettacolo e che, in massima parte, a 80 anni sono ancora saldamente sulla breccia. Come Renato Pozzetto, uno dei grandi nomi della comicità italiana dell’ultimo mezzo secolo, che in carriera ha divertito – divertendosi – intere generazioni attraverso la tv, il cinema e il cabaret di cui è stato, da solo e con Cochi Ponzoni, uno degli storici protagonisti. Renato Pozzetto festeggerà i suoi primi 80 anni martedì 14 luglio nella sua Laveno Mombello, sulla sponda lombarda del Lago Maggiore, dove da qualche anno si è inventato addirittura albergatore. Ed è lì che siamo andati a trovarlo.

Anzitutto buon compleanno e una domanda: come ci si sente ad aver raggiunto un così importante traguardo?
«Vecchio. Ma con un bilancio abbastanza positivo alle spalle, tranne il fatto che una decina di anni fa è venuta a mancare mia moglie Brunella, la cui scomparsa è stata un momento di grande tristezza in una vita sostanzialmente allegra. Con mia moglie ho infatti avuto un rapporto felicissimo. Per fortuna ho dei figli e dei nipoti simpatici, che mi vogliono bene e che mi sono sempre vicini».

Proviamo adesso a tornare un po’ indietro nel tempo. Come e dove nasce il Renato Pozzetto cabarettista e comico?
«Sull’asse Milano – Lago Maggiore. Sono infatti nato a Laveno Mombello dove i miei genitori erano sfollati dopo che la nostra casa di Milano era stata bombardata e ho trascorso la mia infanzia a Gemonio, un paesino limitrofo. Lì era sfollato anche Cochi Ponzoni i cui genitori erano amici dei miei e con il quale ci frequentiamo da sempre. Ed è proprio a Gemonio che, con lui abbiamo iniziato a suonare la chitarra, a cantare assieme per divertimento. Un hobby che poi tornati a Milano, abbiamo continuato a coltivare».

Che Milano era quella della vostra gioventù?
«Una città che ovviamente offriva molto meno rispetto ad oggi. Però c’erano alcuni luoghi interessanti. Come un’osteria che io e Cochi frequentavano alla fine degli anni Cinquanta. Si chiamava l’Oca d’oro ed era un posto che abbiamo iniziato a bazzicare grazie ad un amico di Gemonio, che lavorava a Milano e che dipingeva. Lì infatti si ritrovavano artisti quali Piero Manzoni e Lucio Fontana. Ricordo che il gestore era un ex boxeur, un anarchico che ascoltava canzoni di anarchia e voleva che io e Cochi le cantassimo. E noi lo facevamo. Poi a fianco di questa osteria aprirono una galleria d’arte, La Muffola, che rese la zona ancora più vivace. Iniziò a passare di lì molta gente tra cui Dario Fo, Gaber, Jannacci che si fermavano all’Oca e si univano a noi a cantare, a far festa. Anche perché ad un certo punto nel locale comparve pure un piccolo pianoforte verticale che ci aiutava... Nel 1964 poi i due proprietari della Galleria d’arte decisero di aprire un locale in cui fare cabaret, il Cab 64 e ci invitarono. Ricordo che eravamo io, Cochi, una francese, Jaqueline Perrotet (che era moglie del mago Zurlì) Bruno Lauzi, Lino Toffolo e Felice Andreasi. Ma al Cab passavano spesso Jannacci, Fo e Gaber che venivano ad ascoltarci e ci davano una mano. Gaber, in particolare ci dava lezioni di chitarra. O meglio, le dava a Cochi perché io con gli strumenti non ho mai avuto un buon rapporto».

E poi arrivò il Derby...
«Fu Enzo Jannacci, nel 1967 a proporci (su invito dei proprietari Angela e Gianni Bongiovanni) di andare a lavorare lì. C’era già Enrico Intra che suonava il jazz, noi siamo arrivati (parlo sempre di me Cochi, con Jannacci, Lauzi, Toffolo e Andreasi) e abbiamo formato una sorta di collettivo – che chiamammo Gruppo Motore per l’energia che doveva sprigionare – che gestiva artisticamente il locale. E lì la macchina è definitivamente partita».

Cosa ha decretato il vostro successo?
«A mio avviso il fatto che noi mettevamo in scena noi stessi e ciò che ci piaceva, senza alcun calcolo, non disdegnando di tuffarci nell’assurdo, nella follia (come nel caso della canzone intelligente, La gallina). Un modo di fare spettacolo che poi abbiamo portato dapprima in tv e che successivamente ci ha permesso di arrivare al cinema».

Il poster del film commedia «Per amare Ofelia» (1974) che ha decretato il debutto cinematografico di Renato Pozzetto.
Il poster del film commedia «Per amare Ofelia» (1974) che ha decretato il debutto cinematografico di Renato Pozzetto.

Che è stato un altro cardine della sua carriera.
«Sono stato il primo del nostro gruppo a fare un film. Un regista che veniva da esperienze con Fellini – Flavio Mogherini – mi offrì una parte completamente diversa rispetto ai personaggi che portavo in tv e negli spettacoli di cabaret. Feci vedere il copione a Jannacci che lo bollò come una c****a pazzesca, a me però piaceva anche perché si trattava di un progetto delicato e senza volgarità quindi decisi di farlo. Chiesi il permesso a Cochi (in quel periodo infatti registravamo Canzonissima e visto che il film si girava in Spagna si dovette organizzare in modo particolare le due cose) e mi buttai nell’impresa. Il film era Per amare Ofelia, che ebbe un buon successo e per il quale fui premiato con il David di Donatello. L’anno dopo è toccato a Cochi fare un film (Cuore di Cane con Lattuada) e da lì siamo passati al cinema per una trentina di anni. Anni in cui ci siamo incontrati raramente ma che comunque non hanno interrotto il nostro rapporto».

Quindi non c’è mai stata alcuna rottura con Cochi.
«Macché, semplicemente ognuno di noi faceva il proprio mestiere. E visto che il mestiere era quello dell’attore non sempre ciò significava poter lavorare insieme. Però questo non ha minimamente intaccato la nostra amicizia».

Dei tanti ruoli che ha interpretato sul grande schermo ce n’è qualcuno che le sta più a cuore?
«No. Anche perché ogni film è stata un’avventura a se. Che mi è piaciuta, anche perché se i ruoli non mi fossero andati a genio non li avrei mai interpretati. Poi c’è stato qualche personaggio che è piaciuto più di altri, qualche film che è andato bene, altri meno. Ma in ciascuno di loro ho sempre cercato di dare il meglio di me stesso, per cui per me sono stati tutti importanti».

Negli ultimi anni all’attività di attore ha affiancato quella di ristoratore. Come è accaduto?
«Circa quarant’anni fa io e mio fratello abbiamo visto un immobile in una splendida posizione a Laveno Mombello, dove vivo da sempre in alternanza con Milano, che andava all’asta e abbiamo deciso di acquistarlo, ristrutturarlo e trasformarlo in una struttura ricettiva - ristorante e una decina di camere. Ed ecco come è nata la locanda Pozzetto che ha, appunto, il nostro cognome e della quale dopo la scomparsa di mio fratello ne sono rimasto l’unico proprietario. Ed è un’attività che ci ha dato grandi soddisfazioni».

In tv Cochi e Renato agli inizi degli anni Settanta.
In tv Cochi e Renato agli inizi degli anni Settanta.

E che le consente di rimanere anche lavorativamente sul «suo» Lago Maggiore. A proposito, come mai un’area come quella del Verbano è così ricca di comici?
«Ritengo che si tratti di una coincidenza. Anche perché niente è nato realmente sul lago. Tutto è infatti legato a Milano e al cabaret meneghino. È stata quella la vera fabbrica della comicità: chi si è fatto le ossa in quei contesti spesso è poi riuscito ad arrivare al successo. Che venisse dalla regione del lago o meno. È insomma Milano che bisogna ringraziare».

Un’ultima cosa. Pochi sanno che Renato Pozzetto è svizzero...
«È vero: mia mamma, Clementina Prospero, era infatti di Malvaglia, mentre mio padre era italiano. In quegli anni la legge tuttavia non permetteva ancora alle madri di trasmettere la cittadinanza svizzera ai propri figli. Quindi pur di madre ticinese ero italiano. Poi però ho sposato mia moglie, Brunella Gubler, che era una svizzera tedesca, originaria del Cantone Soletta, seppur nata in Italia. E quindi ho recuperato la cittadinanza grazie a lei. Sono quindi uno svizzero patentato, ma in questa zona siamo dirimpettai e le differenze tra gli uni e gli altri lungo la frontiera non sono rilevanti. Con il Ticino ho avuto e continuo comunque ad avere ottimi rapporti. E ho lavorato tanto: una delle ultime cose fatte è stata una canzoncina assieme ai Piccoli cantori di Pura: si intitola Babbo Natale è un geometra. Un’esperienza davvero divertente».

© CdT/Archivio
© CdT/Archivio

Un surrealista a Milano
Renato Pozzetto è nato il 14 luglio 1940 a Laveno (Varese) ma è fondamentalmente un milanese. A Milano deve quasi tutto: oltre alla possibilità di esordire come cabarettista, nella città lombarda ha conosciuto i suoi maggiori collaboratori e sempre a Milano ha girato innumerevoli suoi film, creando una serie di situazioni ambientate nella metropoli rimaste memorabili. Malgrado la sua milanesità esibita Pozzetto è comuque un comico amato in tutta Italia, grazie soprattutto alla sua vena surreale e stralunata che lo fa assomigliare un po’ a Buster Keaton. Memorabili moltissime sue gag in cui, a fronte delle situazioni più assurde, esibisce la più assoluta freddezza e «nonchalance», scatenando un umorismo irresistibile.

«Mettevamo in scena noi stessi e ciò che ci piaceva, senza alcun calcolo, non disdegnando di tuffarci nell’assurdo, nella follia»

Per tacere di quelle demenziali scenette che, insieme a Cochi Ponzoni, lo hanno reso celebre ai suoi esordi e che sono veri e propri pezzi di teatro dell’assurdo traslati nel cabaret. Dopo il successo televisivo della coppia Cochi&Renato, Pozzetto esordisce al cinema con Per amare Ofelia (1974) di Flavio Mogherini, dove propone per la prima volta la sua recitazione straniante fatta di silenzi, gesti impacciati e sguardi fissi. Il grande successo del film è seguito a ritmo vertiginoso da tante altre pellicole che seguono più o meno sempre lo stesso cliché e che giocano sulle capacità di Pozzetto di tirare fuori il meglio anche dalle situazioni più trite e ritrite. Tra queste Di che segno sei? (1975), Il padrone e l’operaio (1975), Nessuno è perfetto (1981), Un povero ricco (1983), Il ragazzo di campagna (1984), Da Grande (1987 al cui soggetto si ispirerà il film americano Big, con Tom Hanks), Papà dice messa (1996), fino al più recente Ma che bella sorpresa (2015). In tv, dopo i fasti degli anni 60-70, è tornato nuovamente in coppia con Cochi nelle miniserie Nebbia in Valpadana (2000) e Casa e bottega del 2013.