C’è un nuovo colosso anti-Netflix

Un colosso. Un altro, già. Nuovo di zecca. Le società americane WarnerMedia e Discovery diventeranno una cosa sola. Una cosa grande, appunto. Perché abbraccerà la televisione, il cinema e soprattutto lo streaming. La mossa, leggiamo, è nata da una decisione di AT&T: il gigante delle telecomunicazioni da tempo desiderava scorporare dalle sue attività WarnerMedia, acquistato solo pochi anni fa. Rimarrà, tuttavia, azionista (al 71%) della nuova società mentre il restante 29% andrà agli azionisti di Discovery.
La mossa, di nuovo, è strategica: da una parte, WarnerMedia porterà gli studios cinematografici della Warner Bros, oltre ai canali televisivi HBO, CNN, Cartoon Network e i franchise come DC Comics; dall’altra Discovery Channel, Food Network, Animal Planet ed Eurosport. Oltre, dicevamo, alle due piattaforme streaming HBO Max e Discovery+. È stato calcolato che, assieme, i due gruppi potranno mettere sul piatto 20 miliardi di dollari per la produzione di contenuti originali. Più di quanto è in grado di investire, oggi, Netflix.
«Ciò a cui stiamo assistendo è un esempio di come le piattaforme di streaming abbiano modificato il mercato della proprietà intellettuale» afferma Antonio Nucci, dottorando dell’Istituto di Media e Giornalismo (IMeG) e assistente al corso bachelor di Televisione: Industria e Linguaggi presso l’Università della Svizzera italiana. «Per poter competere con i grandi gruppi su scala globale è necessario che la propria offerta sia speculare e, allo stesso tempo, unica rispetto alla concorrenza. Per fare questo è necessario crescere sia come dimensioni sia come investimenti. Entrambi i gruppi operano in settori del mercato che si completano l’uno con l’altro: dall’informazione, al prodotto seriale di qualità, ai programmi di intrattenimento».
Gli sforzi, insomma, sembrano concentrarsi sempre di più sullo streaming. Una scelta logica, considerando le abitudini dei consumatori. Ancora Nucci: «Si tratta sia di un cambiamento di abitudini delle audience, ormai in corso da anni, sia di una strategia di mercato a lungo termine. Il pubblico, specialmente negli Stati Uniti, fruisce sempre più dei prodotti ad utilità ripetuta, come ad esempio le serie televisive, sulle piattaforme di streaming, mentre guarda i prodotti di flusso come l’informazione o i gameshow ancora in diretta e in televisione».


Il guanto di sfida a Netflix
Arrivare per primi, come Netflix, certamente aiuta. Tant’è che gli altri protagonisti del mercato sono costretti a rincorrere. E ad accorparsi. È notizia recente, ad esempio, l’interesse di Amazon per la storica MGM, la Metro Goldwyn Mayer, quella del leone che ruggisce per intenderci. Un affare da 9 miliardi di dollari. La domanda, allora, è se e quando gli altri riusciranno a farsi davvero largo nel mercato. «La posizione di Netflix, ad oggi, è ancora forte grazie ai suoi circa 208 milioni di iscritti nel mondo» rileva Nucci. «Disney+, lanciata nel 2019-20, ha circa 100 milioni di abbonati e Amazon Prime Video 175 milioni. Quello che accadrà in futuro è incerto al momento, ma i dati dimostrano che la concorrenza sta attaccando Netflix su due fronti: da una parte stanno costringendo la piattaforma a investire in misura sempre maggiore sull’autoprodotto, dall’altra stanno riducendo il contenuto “di terze parti” che Netflix può aggiungere al proprio catalogo». Sia quel che sia, la fusione fra WarnerMedia e Discovery «creerà un gruppo con mezzi e risorse sufficienti per competere nel mercato globale dello streaming».
Chi se la sente e chi no
Tuttavia, c’è anche chi – come Sony – non se l’è sentita di fare il passo più lungo della gamba. Preferendo, alla creazione di una propria piattaforma streaming, la via degli accordi con Netflix. Una scelta in controtendenza rispetto a quanto stiamo assistendo, no? «Si tratta di una scelta comprensibile» risponde Nucci. «Per competere in questo mercato le aziende necessitano di investimenti sempre maggiori e di un costante ampliamento del proprio catalogo. La produzione cinematografica è solo una parte, seppur importante, del core business della Sony». Una parte, non il tutto.
Le grandi manovre, poi, riguardano solo e soltanto gli Stati Uniti. È lì che tutto si decide. E tutto si concentra. In effetti, prosegue il nostro interlocutore, «al momento non ci sono gruppi europei capaci di poter competere con i colossi americani su scala globale. Le piattaforme europee, fino ad ora, si sono focalizzate sui propri mercati nazionali e le case di produzione hanno preferito prendere accordi direttamente con le piattaforme americane per divulgare i propri contenuti».
Sempre in Europa, per concludere, è emblematica la perdita di velocità di Sky Italia. Un tempo editore vero e proprio, con l’introduzione di Sky Q l’azienda è diventata un contenitore per altri attori: da Netflix a Prime Video, passando per Disney+. «In realtà Sky ha sempre bilanciato l’autoprodotto con i contenuti prodotti da altri» spiega Nucci. «Sky Q è un’evoluzione dell’hardware STP (set-top box, ndr) che, oltre a funzionare con o senza parabola, include alcune funzioni classiche dello streaming quali la registrazione, la pausa live e il download dei programmi» chiosa Nucci. «È un prodotto che vuole avvicinarsi alle abitudini di un pubblico che preferisce organizzare la visione dei programmi a seconda dei propri desideri» invece di subire, in un certo senso, il palinsesto offerto.