«Cesare contro Pompeo e la Repubblica romana cadde»

Legioni di storici e di scrittori si sono occupati dello scontro fra Cesare e Pompeo, che segnò la fine della repubblica a Roma. Ma l’interpretazione che di questo evento capitale della storia antica offre Sergio Valzania – storico, saggista, romanziere, già professore di Comunicazione all’università di Genova e di Siena – è davvero innovativa. Ricostruendo nel saggio «La sconfitta di Farsalo. Pompeo e Cesare», l’intero processo storico partendo dal tentativo di Silla di rifondare la repubblica, lo studioso analizza le forze in campo: da una parte l’esercito dei «populares» di Cesare, dall’altra quello degli «optimates» di Pompeo, l’uomo piú potente dell’Urbe. Di quest’ultimo viene messa in luce la «natura rivoluzionaria»: il suo approccio al potere anticipa quello di Augusto. Sul piano politico Cesare era aggressivo, spregiudicato, mentre Pompeo, era «al fondo un uomo di pace». Cesare che, in armi, passa il Rubicone compie un atto di forza: segna la fine della volontà senatoria di disporre del controllo sopra gli eserciti della repubblica. L’assassinio delle Idi di marzo scatena una lotta per il potere, durata un quindicennio, che l’autore segue e commenta passo passo. Ottaviano Augusto «avrà il sopravvento su rivali meno intelligenti, determinati, consapevoli e spregiudicati».

Professor Valzania, perché, a didascalia della guerra civile fra Cesare e Pompeo, lei ha posto l’aforisma ciceroniano «Ricchezza, fama, potenza, prive di saggezza e di contegno nel vivere e nel comandare grondano vizio e insolente superbia»?
«Cicerone è insieme protagonista e attento osservatore degli anni del primo triumvirato, quello di Cesare, Pompeo e Crasso. Le sue lettere sono un documento prezioso per ricostruire non solo i fatti, sempre sfuggenti, ma gli umori, le impressioni, i modi di pensare che caratterizzarono quel periodo storico. Dai suoi scritti emergono riflessioni, a volte inconsapevoli, che ci indicano la temperie di quei tempi, la tensione esistente fra il rimpianto per un’organizzazione sociale basata sul rigore della figura pubblica dei leader e l’evidenza di un cambiamento violento, della costituzione di un sistema di potere che consentì la concentrazione di ricchezze e poteri fino a pochi decenni prima impensabili».
Perche definisce Pompeo «natura rivoluzionaria»?
«Secondo me è Pompeo, non Cesare come molti credono, il vero politico nuovo, innovatore, degli ultimi anni della Repubblica. La campagna di Spagna, combattuta in gioventù, lo aveva convinto di non essere un grande comandante militare. Al più era un generale molto ordinato, l’appellativo di «Magno» che si era fatto attribuire dai soldati era immeritato. I suoi talenti erano altrove. Li avrebbe dimostrati nella campagna contro la pirateria e poi, ancor più, nella lunga guerra combattuta in Oriente. Lì si comportò come un grande uomo di Stato. Non si limitò a sconfiggere i nemici, organizzò invece un sistema politico, dipendente da Roma, che sarebbe sopravvissuto nei secoli, fino a trovarsi a fondamento di quello che noi chiamiamo impero bizantino.
Perché Pompeo prefigura la forma di governo universale, monocratico e pacificato che Cesare aveva tentato di conseguire con le armi?
«Era il suo talento, il suo carisma politico. Cesare era uomo di guerra. Anche l’attività che svolge a Roma quando ricopre il consolato è conflittuale, di lotta. Il suo collega Bibulo si rinchiude sconfitto in casa, rifiutandosi di partecipare a una gestione del potere così spregiudicata, anche se di grande efficacia. Pompeo invece era un organizzatore, un uomo di pace. Disponeva di una capacità di ascolto, di comprensione delle realtà politiche, di mediazione, che tutti gli riconoscono. In fondo quello che tutti i popoli affacciati sul bacino del Mediterraneo chiedevano a Roma era questo, una capacità di gestione politica in grado di portare la pace e di conciliare interessi. Non certo feroci operazioni di conquista, come quella effettuata da Cesare nelle Gallie».
Quale fu l’atteggiamento di Cesare verso il ceto senatorio?
«Cesare non aveva grande fiducia nella natura umana. Non credeva nella fedeltà dei sottoposti. Immaginava piuttosto che esistesse un interesse comune, la comprensione condivisa del fatto che Roma andava governata da un uomo solo, con il quale il ceto senatorio poteva collaborare. Sconfitti gli ultimi pompeiani, o repubblicani se li vogliamo considerare in senso più largo, Cesare riteneva di essere padrone della situazione e di essere lui il sostegno del potere senatorio. O almeno di quanto del potere senatorio poteva sopravvivere. Non comprese che la violenza genera violenza: un meccanismo perverso ben difficile da fermare».
Perché a sconfiggere entrambi i contendenti furono le forze, che lei definisce della «palude senatoria»?
«Il potere a Roma era sempre stato nelle mani del ceto senatorio. La storia della città era quella di una comunità contadina il cui gruppo dirigente aveva saputo integrarsi con quelli dei popoli vicini, accogliendo i loro rappresentanti nel proprio senato attraverso una sofisticata politica matrimoniale. Questo faceva dell’istituzione decisionale della repubblica un organismo potentissimo, che però aveva perso buona parte della propria capacità etica, quella che lo aveva reso grande e gli aveva permesso di superare con successo crisi come quella delle guerre annibaliche. Nella fase finale del I secolo a.C. il senato romano si era trasformato in una sorta di club esclusivo per lo sfruttamento del grande complesso territoriale che le guerre puniche e il periodo immediatamente successivo, i 53 anni individuati da Polibio, avevano posto in suo potere. Alla fine a prevalere furono gli interessi, le ambizioni, le illusioni, le miserie, anche divergenti e non organizzate, di questo gruppo sociale che si trovava concorde su di un solo punto: la strenua difesa della propria rapace autorità sopra un complesso politico che non sapevano governare e che chiedeva di organizzarsi in modo nuovo e meno dipendente da loro».
Quale fu il principale errore strategico di Pompeo a Farsalo, il 9 agosto del 48 a.C. ?
«Non so se si possa parlare di errore. La causa della sconfitta fu la mancanza di unicità del comando. Non sappiamo cosa spinse Pompeo a combattere, mentre siamo sicuri che fino a pochi giorni prima non intendeva accettare battaglia: intendeva vincere una guerra di logoramento, ma non riuscì a imporre la sua scelta a qua