Charles Monroe Schulz, il poeta che creava fumetti
Una simbiosi totale con le sue creature, con quel personalissimo microcosmo che è diventato un microcosmo universale. Ricordare, nel centenario della nascita, il fumettista Charles Monroe Schulz, significa inevitabilmente raccontare dei suoi Peanuts e di quelle strisce disegnate che hanno cambiato nel profondo l’immaginario collettivo della seconda metà del Novecento.
Schulz era nato a Saint Paul nel Minnesota il 26 novembre 1922. Figlio di un barbiere di origine tedesca (sì, proprio come Charlie Brown) e della casalinga Dena, fin dall’inizio il fumetto segna in qualche modo il suo destino: già la maestra dell’asilo gli predice commentando i suoi disegni, una carriera nel ramo e lo zio gli affibbia un nomignolo in tema, «Sparky» come, il cavallo di Barney Google, celebre strip anni Venti di Billy DeBeck, che lo accompagnerà per sempre.
D’altronde il piccolo Charles cresce immerso nei fumetti di ogni genere che abbondano nella bottega di papà Carl e a tredici anni riceve in dono un cane bianco e nero (ma guarda...) che battezza Spike (sì, proprio come il magrissimo fratello di Snoopy). Alle scuole superiori il nostro stringe amicizia con un ragazzo di nome... Charlie Brown, ma subito dopo il diploma durante il servizio militare viene inviato in Francia , dove partecipa come mitragliere alle fasi conclusive della Seconda guerra mondiale. Al suo ritorno negli Stati Uniti comincia sul serio la sua carriera di cartoonist insegnando alla Art Instruction School dove trae nuove ispirazioni per molti futuri personaggi (si narra ad esempio di una sua tremenda cotta per una segretaria dai capelli rossi, tale Donna Wold, che evoca la mitica «ragazzina dai capelli rossi» idealizzata da Charlie Brown) e nel 1947 esordisce con la serie Li’l Folks (protagonisti un gruppo di bambini dalla battuta facile) sul «St. Paul Pioneer Press». Nel 1950, la svolta: le sue vignette vengono scoperte dal potentissimo United Feature Syndicate che lo mette sotto contratto. Inizia così, il 2 ottobre 1950, una leggenda editoriale che fa la fortuna, anche economica, del suo geniale creatore. Per mezzo secolo milioni di persone ogni giorno attendono la nuova striscia e Schulz (che nel frattempo si è sposato ed è diventato padre di cinque figli che gli garantiscono ispirazioni continue) ne viene totalmente coinvolto attribuendo a ciascun personaggio aspetti diversi della sua personalità.
Cifra stilistica
Pare che a Schulz la parola Peanuts non piacesse per niente. Quando lo United Feature Syndicate gliela impose come titolo della serie la accettò controvoglia, ma volle sempre dargli un significato preciso che la dice lunga sul suo carattere e sulla sua personalità. Non «noccioline» o «personcine», come talvolta si crede, bensì «inezie», «sciocchezze», «cose di poco conto» ed è così che lui, senza pretese e senza clamori, intese sempre le sue strip: un breve momento per riflettere ogni giorno, con ironia, sui piccoli e grandi temi della vita. Ma, nonostante la leggerezza e il candore del loro creatore, i Peanuts sono andati ben oltre le sue intenzioni originarie diventando il fumetto più popolare del globo. Nell’introduzione alla prima raccolta italiana delle avventure di Charlie Brown & Co. (nel 1963) Umberto Eco scrisse senza mezzi termini: «Se poesia vuole dire capacità di portare tenerezza, pietà, cattiveria a momenti di estrema trasparenza, come se vi passasse attraverso una luce e non si sapesse più di che pasta sian fatte le cose, allora Schulz è un poeta». Quella poesia della semplicità che poi è la cifra stilistica peculiare del fumetto più amato e celebrato di tutti i tempi già a partire dall’impostazione grafica e dalla purezza del tratto di Schulz come anche per il suo stile narrativo, quasi minimalista.
Protagonisti, lo sappiamo tutti, un gruppo di bambini (e qualche straordinario animale) nel tipico contesto medio-borghese e suburbano statunitense post anni Cinquanta. In uno schema fisso (tipico delle strip «made in USA») di quattro vignette (con l’eccezione di quelle più articolate a colori per i supplementi domenicali) questi candidi personaggi, magistralmente caratterizzati sotto il profilo della personalità e dello stato d’animo, di un mondo senza adulti (visibili almeno) affrontano la loro quotidianità, fatta di scuola, giochi, sport e primi amori, in situazioni sempre simili ma sempre diverse, specie nella battuta conclusiva. Ma così facendo le creature di Schulz finiscono con l’indagare sul senso della vita fornendo, spesso con ironia e sagacia, le risposte ai piccoli e grandi quesiti che tutti ci poniamo. Una leggerezza intensa, che colpisce e fa riflettere ben più in profondità del sorriso che suscita d’acchito e che in definitiva scava nel profondo della natura umana e delle sue frustrazioni postmoderne.
Ecco il segreto che ha fatto dei Peanuts e del loro viaggio cinquantennale fra pregi e difetti di ognuno di noi un fumetto senza precedenti nonché un fenomeno di culto studiato, analizzato e interpretato da letterati, saggisti e psicologi. I disagi esistenziali e la tenacia di Charlie Brown, l’arrogante sicurezza di Lucy van Pelt, gli antidoti all’insicurezza e le attese messianiche di Linus, l’anticonformismo ribelle di Piperita Patty, le ambizioni artistiche di Schroeder, gli arguti propositi di Sally, il meraviglioso microcosmo infantile inventato da Schulz ha conquistato milioni di fan in tutto il mondo. Per non parlare di Snoopy (e dell’inseparabile e mirabolante uccellino Woodstock), l’incomparabile Snoopy, protagonista di un miliardario fenomeno di merchandising globale che ha addirittura travalicato il successo del fumetto.
Pubblico «alto»
Un fumetto che, come detto, comparve in italiano già agli inizi degli anni Sessanta e che contribuì a sdoganare il genere anche presso quel pubblico «alto» che fino ad allora considerava poco serio dedicarsi al magico mondo delle nuvole parlanti. Grazie al mensile «Linus», alle raccolte tascabili BUR e a personaggi come Giovani Gandini, Oreste del Buono e Ranieri Carano anche una certa America, di cui allora si sapeva ben poco (a cominciare dalla traduzione di certi termini allora semisconosciuti come ad esempio beagle-bracchetto, marshmallow-toffoletta o pumpkin-cocomero), divenne via via familiare con suoi riti, i suoi divertimenti e i suoi sport.
Come noto, dopo la scomparsa di Schulz, che non si è mai avvalso di alcuna collaborazione, per sua espressa volontà testamentaria nessuna nuova striscia dei Peanuts potrà mai più essere disegnata: quel mondo magico non potrà mai più essere cambiato. Se oggi qualcuno, magari incuriosito dallo Snoopy che si ritrova sulla maglietta, sulla tazza o sull’agenda volesse accingersi alla lettura di una delle 21.010 tavole create da Schulz in mezzo secolo l’unico consiglio potrebbe essere di lasciar perdere tutto quanto di quel fumetto insuperabile è stato detto e scritto fino ad oggi: per amarlo davvero basta lasciarsi rapire dal candore e dalla fantasia dei bambini più sinceri del mondo. Fino all’ultima striscia, quella del 13 febbraio 2000, quando con la consueta semplicità e saggezza un buffo «bambino dalla testa rotonda» e un folle bracchetto-scrittore (Schulz era morto la notte precedente) spiegavano al mondo che, per espresso desiderio del loro creatore, la saga non sarebbe stata portata avanti da nessun altro, chiudendo così l’ultima pagina di una straordinaria avventura.
Quel cagnolino portabandiera della fantasia
Snoopy è il cane «ultraumano». L’esempio vivente della potenza senza limiti della fantasia. Non è un mistero che al beagle antropomorfo più famoso del mondo Schulz dedicò, col passare degli anni, sempre maggior attenzione evidenziandone con particolare cura anche il rapporto metafisico con Charlie Brown e con l’amico pennuto Woodstock. Un cane-eroe praticamente tuttologo (si calcolano in circa 250 le sue divagazioni oniriche), dotato del gusto raffinato del dettaglio culturale che, pur senza saper parlare, è senz’altro il più dinamico personaggio della saga nonché quello cui sono dedicati i tormentoni più arguti e divertenti, gli excursus irresistibili nei tòpoi avventurosi dell’immaginario collettivo americano e quelli più densi di contenuti poetici. In fondo se una cuccia può trasformarsi in un rombante Sopwith Camel in duello col Barone Rosso nei cieli della Prima guerra mondiale o custodire una tela di van Gogh; se una fontana ghiacciata dopo il passaggio della Zamboni può diventare una pista di hockey dove incrociare i bastoni con un uccello; se un innocuo cagnolino può diventare ostinato scrittore d’insuccesso («Era una notte buia e tempestosa...», avvocato, chirurgo, ufficiale della legione straniera, autore di teatro, campione di praticamente ogni disciplina sportiva, o idolo fighetto delle ragazze al circolo studentesco, perché anche noi non possiamo sognare a occhi aperti una vita da leggenda?