Anniversari

Charlie Parker, il Picasso del jazz

Cent’anni fa nasceva il grande sassofonista americano, musicista tra i più influenti del XX secolo – Padre fondatore, assieme a Dizzy Gillespie, del bebop, movimento che negli anni Quaranta traghettò la musica afroamericana nella modernità, la sua tecnica improvvisativa è ancora oggi un imprescindibile punto di riferimento
Luca Cerchiari
29.08.2020 06:00

Una sorta di leggenda, quasi una favola campestre, aleggia a proposito della musica e della vita di Charlie Parker, nato cent’anni fa a Kansas City. Gli studiosi e i musicisti si sono lungamente chiesti da dove il maggior sassofonista della lunga vicenda del jazz avesse tratto l’idea di utilizzare, nel suo fraseggio sul sassofono, l’intervallo cosiddetto di «quinta diminuita», in inglese flatted fifth. Si è scoperto non molto tempo fa che uno degli uccelli che popolavano il cortile della casa dei genitori, quasi a ridosso della città del Missouri, cantava utilizzando questo intervallo che, così, si era radicato nell’immaginazione sonora del giovane Charles. Parker lo avrebbe utilizzato regolarmente nella fase matura della sua carriera, a New York, quando avrebbe messo a punto con altri giovani afro-americani della sua generazione lo stile moderno del jazz, detto bebop: uno stile dirompente, rivoluzionario, difficile, intellettuale. Ma allo stesso tempo ricco di elementi della tradizione, a partire dal blues, nel cui alveo Parker, negli anni di Kansas City, si era formato professionalmente, e comunque basato sulla forma-canzone di Broadway e Tin Pan Alley, gli standard di celebri autori bianchi come George Gershwin, Cole Porter, Vernon Duke.

Il soprannome
Canzoni appena citate melodicamente ma poi stravolte nella forma e nello spirito dall’irrefrenabile e passionale slancio improvvisativo di Parker, che proprio grazie alla guizzante velocità e leggerezza delle sue linee sul sassofono contralto si sarebbe conquistato il soprannome di Bird, o Yardbird, l’uccello che portava il jazz verso cieli sconosciuti, verso un «oltre», un «al di là» delle convenzioni che avevano sino ad allora fatto conoscere il jazz prima come musica popolare festosa e poi come genere votato alla danza sociale e al rapporto con la canzone. Certo, anche Parker era partito dallo Swing orchestrale (ricordiamo la sua collaborazione con Jay McShann), ma aveva poi messo a punto con Dizzy Gillespie, Thelonious Monk, Bud Powell, Miles Davis, Max Roach e altri straordinari ventenni, nei locali newyorkesi situati sulla 52. strada, una musica profondamente diversa.

Charlie Parker assieme ad un giovane  Miles Davis.
Charlie Parker assieme ad un giovane Miles Davis.

La rivoluzione del bebop
Il bebop, evocando i cambiamenti di un mondo che usciva dal dramma della seconda la guerra mondiale, affermava in modo diverso e cosciente l’identità del nero americano, la sua acquisita consapevolezza culturale ed espressiva, la sua aspirazione a misurarsi con un genere divenuto avanguardia, provocazione ritmica e armonica, agitato da esecuzioni velocissime e porto al pubblico in modo iniziatico e volutamente provocatorio, magari voltandogli le spalle. Charlie Parker ha incarnato più di tutti, in una chiave afroamericana, il mito tardo-romantico dell’«artista maledetto», geniale e inattendibile, assetato di vita e al contempo votato a una progressiva autodistruzione psicofisica, dovuta nel suo caso agli alcolici e alle droga e a un’esistenza tormentata, per quanto coronata da crescenti successi e unanimi riconoscimenti. La morte precoce, a soli trentacinque anni, ha ulteriormente alimentato un mito che, sul piano artistico, si è tradotto nella sistematica assimilazione del suo ricco e personalissimo stile musicale, divenuto negli anni oggetto di infinite repliche da parte di sassofonisti di mezzo mondo, così come anche di analisi e di metodi di studio.

«Bird» alla fine degli anni Quaranta.
«Bird» alla fine degli anni Quaranta.

Le celebrazioni
Gli Stati Uniti, che tre anni fa si sono dimenticati di celebrare il centenario del jazz, sono ora onnipresenti a ricordare Parker con una nutrita serie di iniziative, per lo più digitali: a New York il festival annuale a lui dedicato prevede una conversazione tra il contrabbassista Christian McBride e la cantante Sheila Jordan; il centro culturale 92Y proietta un film con apposite coreografie in stile parkeriano predisposte da Hope Boykin e il Lincoln Center presenta Bird Lives! Charlie Parker at 100 Festival, con concerti live e workshops interattivi. Anche il resto del mondo, nonostante il difficile momento che sta attraversando l’universo della musica , celebra con concerti, omaggi, pubblicazioni e numerosi altri eventi che sottolineano il ruolo da lui avuto nello sviluppo del jazz di cui ha rappresentato, alla stregua di pochissimi altri colleghi, l’autentica essenza.

Una vita breve ma spericolata e zeppa di eccessi

Charlie Parker nacque a Kansas City il 29 agosto 1920 e fu cresciuto dalla madre che gli regalò il primo sax in giovanissima età: un gesto d’affetto nei confronti di un bimbo da poco abbandonato dal padre. Charlie vi si dedicò anima e corpo, studiando prima a scuola poi, avido di nozioni, girando per i club della sua città fino a che, per seguire la sua passione, abbandonò gli studi regolari a quindici anni. Ancora minorenne, sposò una ragazza poco più grande di lui e iniziò a sviluppare una forte dipendenza dalle droghe, l’eroina in particolare, che avrebbe poi segnato l’intera sua esistenza. Ciononostante nel giro di un paio d’anni divenne un musicista abbastanza noto e decise di trasferirsi a New York lasciando a casa moglie e figlio. Lì si fece subito notare per l’originale utilizzo del suo sax contralto, entrando in contatto con le principali personalità jazzistiche tra cui Dizzy Gillespie e Earl Hines alla cui band si unì ma con la quale ebbe un rapporto difficile a causa del suo atteggiamento poco disciplinato, dovuto alla dipendenza da droga e alcol e alla vita sregolata.

Le Big Band ad ogni modo non erano il suo terreno ideale e ben presto iniziò a mettere insieme gruppi più ridotti, con lui a capo. A metà anni ‘40 realizzò varie incisioni tra cui All the things you are, Salt peanuts e, nel 1945, la celebre Ko-Ko. Risalgono al ‘45 anche un viaggio in California per portare il nuovo sound nella West Coast e l’aggravarsi della sua tossicodipendenza cui si aggiungeva uno smodato uso di alcol, per sopperire talvolta alla mancanza di eroina, e di cibo. Nel 1946 le condizioni di Bird erano allo stremo, ma riuscì comunque a convincere la propria casa discografica, la Dial Records, a effettuare delle registrazioni poi divenute leggendarie. In quel periodo suonò inoltre con il classico quintetto nel quale ruotarono anche Miles Davis (con cui incise la celebre Ornithology) e Max Roach, ma sempre condizionato dalla droga. Nei primi anni Cinquanta, dopo l’ennesima degenza ospedaliera tentò di riprendere a fare concerti ma senza successo e soprattutto senza la spinta creativa che lo aveva portato in auge nel decennio precedente. Il 12 marzo 1955, a casa di un’amica Bird, morì seduto in poltrona, davanti alla tv stroncato da una polmonite. Il coroner, chiamato a fargli l’autopsia, non sapendo individuare subito la causa, scrisse sul referto che la salma apparteneva ad un uomo di circa 53 anni. In realtà Bird aveva solo trentaquattro anni.