Air, le scarpe di Michael Jordan

Deve di più la Nike a Michael Jordan o Michael Jordan alla Nike? Il film Air–La storia del grande salto, in uscita nei cinema statunitensi mercoledì 5 aprile e nel resto del mondo il giorno dopo, pone la domanda ma non può dare una risposta che non esiste. Perché Jordan dal solo brand Air ricava oggi 400 milioni di dollari l’anno, ma è altrettanto vero che la Nike proprio grazie al più forte giocatore di pallacanestro di tutti i tempi è uscita dalla nicchia della corsa, diventando un marchio pop. Ma cosa dice di nuovo il film di Ben Affleck?
Converse
Le quasi due ore di Air non sono una biografia di Michael Jordan, che del resto appare in pochissime scene, ma il racconto del più importante evento nella storia del marketing sportivo, cioè la firma con la Nike di un ventunenne Jordan, nel 1984, subito dopo la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Los Angeles, l’ultimo vinto dagli americani con una squadra di giocatori tutti provenienti dal college. Nel caso di MJ la North Carolina di Dean Smith, campione NCAA 1982 con l’iconico tiro di Jordan a pochi secondi dalla fine, più volte ricordato nel film. Il Dream Team di Barcellona ’92, anche in questo caso con Jordan stella assoluta sopra agli anziani Magic e Bird, era ancora lontano. Una firma che sembrava impossibile, perché Phil Knight aveva già reso la Nike un’azienda di successo soprattutto per l’atletica, con la pallacanestro mercato marginale non per scelta ma perché dominato da due giganti come Converse e Adidas. Le Converse erano LE scarpe da pallacanestro, negli Stati Uniti come in Europa, più di un giocatore (dilettanti compresi) su due le usava, mentre Adidas sulla spinta del geniale e spregiudicato Horst Dassler era considerato un marchio cool anche fuori dal campo, per scarpe e abbigliamento: fra l’altro il giovane Jordan si sentiva tipo da Adidas, qualsiasi cosa volesse dire. La Nike non soltanto era lontanissima dai numeri della concorrenza (nella pallacanestro aveva il 17% del mercato) ma a prescindere dalla cifra offerta aveva difficoltà nel raggiungere i migliori giocatori.
Spot
Magic Johnson, Larry Bird e Julius Erving nel 1984 erano uomini Converse e tutti gli addetti ai lavori erano convinti che lo sarebbe stato anche Jordan. Tutti tranne Sonny Vaccaro, super-esperto di pallacanestro giovanile, fra high school e college, e dirigente della agonizzante divisione basket della Nike. Vaccaro, nel film interpretato da Matt Damon, intuisce per primo l’impatto che la personalità di Jordan avrà anche fuori dalla pallacanestro. Perché tutti potevano prevedere che Jordan diventasse un campione, non ci voleva un esperto, ma solo Vaccaro capì che questo ragazzo cresciuto a Wilmington, North Carolina, avrebbe cambiato le regole del gioco nella NBA e nell’industria sportiva. In stile Nike e in stile Knight (interpretato da Affleck), come il film ricorda in maniera quasi ossessiva: alla fine la sensazione è quella di un gigantesco spot della Nike, con una narrazione in cui tutti sono buoni, come se alla Converse (nel decennio successivo acquistata proprio dalla Nike) e all’Adidas fossero cattivi. Un racconto un po’ grezzo, ma certo è che la Nike amava considerarsi un’azienda fuori dagli schemi pur muovendosi nel mainstream: lo stesso doppio binario della Apple, per dire, fino a quando entrambe sono diventate la rappresentazione del potere.
Deloris
Air è fedele alla realtà nella rappresentazione dei genitori di Jordan, il padre James e la madre Deloris. Nessuna infanzia disperata, nessun ghetto, nessun desiderio di rivalsa sociale o razziale: i Jordan sono piccola-media borghesia nera di provincia, villetta con giardino e figli cresciuti senza traumi. L’ambizione smisurata di Michael nasce da dentro, non è spiegabile perché in fondo niente di lui è spiegabile. Centrale, nel film e nella realtà, è la madre Deloris, che fa da filtro alle mille richieste e offerte che riceve il figlio. Vaccaro fa leva su di lei, sa che per quasi ogni madre il figlio è un fenomeno e quindi figuriamoci quando è un fenomeno davvero. Sua, nella versione di Affleck, l’idea di inserire nel contratto, in aggiunta al fisso (250.000 dollari l’anno, cifra che oggi fa sorridere), una percentuale legata alle vendite di scarpe marchiate Jordan, anche se è probabile che la trovata sia stata del duro agente David Falk, nel film un po’ troppo macchiettistico, come anche il designer Peter Moore, forse il più decisivo di tutti nell’intera trattativa. Perché le prime Air, create con pochissimo preavviso, erano bellissime. Anche se la loro importanza non fu estetica: non erano scarpe che Michael Jordan indossava, erano proprio le scarpe di Michael Jordan. Non un dettaglio: chiunque comprandole ha l’illusione di far parte del suo mondo.
Amazon
Non spoileriamo un film dove tutto sommato c’è poco da spoilerare, essendo tutte le storie vere e conosciute. Un film che pur essendo studiato a tavolino per il successo ha il merito di smarcarsi dalla filmografia sportiva basata sulla sequenza giovane in ascesa-successo-perdita dei propri valori e declino-riscatto finale. Non ci sono scene di gioco, se non qualche immagine di vere partite dell’epoca, e nemmeno il giocatore protagonista. Certo Amazon, che lo ha coprodotto, ci crede molto: diversamente non avrebbe speso 7 milioni di dollari per promuoverlo durante il recente Super Bowl. Non si tratta del film sportivo definitivo, ma di un’opera che racconta bene una svolta decisiva e l’unicità di un fenomeno che non può essere giudicato con il solito metro wikipedistico (6 titoli NBA con i Chicago Bulls, 2 ori olimpici, eccetera), che pure lo premierebbe, ma con l’impatto su chi seguiva o segue poco la pallacanestro. Nessuno sarà mai come lui ed Air ce lo ricorda una volta di più.