Alain Berset: «Questo Festival è un diamante che brilla in tutta la Svizzera»
Alain Berset a Locarno è praticamente di casa. Passeggiando per le vie della città vecchia con il suo panama, non passa certo inosservato. Non a caso, è il consigliere federale più popolare, e malgrado abbia già annunciato di non voler sollecitare un nuovo mandato il prossimo mese di dicembre, l’attuale «ministro» dell’Interno e della Cultura ha fatto sapere che al Festival tornerà, proprio perché per lui Locarno è una tappa imperdibile dell’estate.
Signor
presidente, sappiamo che lei è un appassionato di cinema e un amante di
Locarno. Per cominciare, le chiedo: che cosa rappresenta per lei Locarno?
«Devo
dire che la mia famiglia ha un legame diretto con il Ticino, dove da piccolo
venivo in vacanza, soprattutto a Bellinzona. Sono stati poi lo sport e la
cultura a portarmi in Ticino. La prima volta che sono venuto a Locarno per il
Festival era nel 1996. Conservo di questo momento un ottimo ricordo. Negli anni
seguenti, è stato un grande privilegio poter tornare nelle vesti di consigliere
federale. Anche in futuro, evidentemente, tornerò».
In
effetti, ha concluso il suo discorso d’inaugurazione con un arrivederci…
«Certo.
Questa è la mia ultima edizione come consigliere federale, ma non come amante
del cinema e del Ticino…».
Qual
è il ricordo più forte che conserva di Locarno in questi anni?
«Mi
piace ricordare l’amicizia con Marco Solari. Nonostante una certa differenza di
età, il fatto di aver potuto lavorare con lui mi ha permesso di vedere la sua
incrollabile passione per il Festival, per la cultura e per il Ticino. Il primo
ricordo mi riporta chiaramente in Piazza Grande, nel momento in cui ho scoperto
la forza di questa città. La piazza è senza dubbio un elemento distintivo, che
caratterizza il Festival e ne incarna l’identità. Ho poi un ricordo più intimo,
legato a un’esperienza privata, ossia il fatto di averlo frequentato con i miei
figli».
C’è
un film che l’ha segnata particolarmente?
«Non
sono uno specialista. Mi considero un semplice amante della settima arte. Sono
tanti i film che ho apprezzato a Locarno. Ricordo, per esempio, la pellicola di
Lionel Baier, Les grandes ondes uscita qualche anno fa. L’ultimo film di
Tarantino, Once Upon a Time...in Hollywood, è stato un momento
eccellente. In generale, credo che la vera esperienza sia essere immersi nel
film, nella piazza e, sotto le stelle, nell’universo».
Signor
presidente, come giudica lo sviluppo di Locarno Film Festival negli ultimi
vent’anni? Che livello è stato raggiunto sotto la presidenza di Marco Solari?
«Il
Festival ha raggiunto un livello di eccellenza importante, non a caso la
Confederazione è sempre stata una fedele sostenitrice della manifestazione.
Tutto, però, è molto fragile. Credo anche che questo sviluppo fosse invitabile.
Il Festival, va detto, è stato in grado di migliorare il proprio livello e di
svilupparsi. Ma - ripeto - tutto è molto fragile. Oggi la manifestazione è un
diamante per il Ticino e la Svizzera. Non un diamante grezzo, ma un diamante
finito. Ora, però, si tratta di capire come proseguire su questa strada, come
alimentare lo sviluppo per resistere alla inevitabile concorrenza degli altri
festival. Una concorrenza che è grande e che richiede molta perseveranza».
Che
cosa manca alla manifestazione per arrivare a essere un festival di livello
mondiale? Crede che sia necessario compiere un ulteriore passo?
«È
difficile. Occorre crescere senza tuttavia perdere il legame con il territorio
e la popolazione. Locarno ha infatti qualcosa di unico rispetto alle altre
kermesse: il fatto di essere un festival popolare, un festival che ogni sera
riunisce nella piazza oltre settemila spettatori. Ma, nello stesso tempo,
è capace anche di fornire qualità. Ecco, questa è la vera essenza di Locarno
Film Festival: qualità e popolarità. Per questo motivo non bisogna dimenticare
che occorre continuare a coltivare la presenza del mercato del cinema, degli
attori e delle squadre. Per fare tutto ciò servono anche le infrastrutture
turistiche. Ma in Ticino siete ben attrezzati».
Poco
fa ha fatto riferimento all’importanza del legame del Festival con il
territorio. Ora sappiamo che, con la partenza di Solari e l’arrivo della
signora Hoffmann non ci sarà più un ticinese alla guida del Festival. Che cosa
pensa di questo importante cambiamento?
«Nella
mia situazione è difficile giudicare. Anche perché la nuova presidente entrerà
in carica quando io non sarò più consigliere federale. Va poi detto che non è
certo la prima volta che il Festival vive un cambiamento alla presidenza. Anche
se, è vero, in questo caso è diverso, perché Solari è alla testa del Festival
da 23 anni. È una generazione intera, e quindi un cambiamento importante. Ma
penso anche che la presidenza non fa tutto. In ogni caso, come presidente
presente e molto forte Solari non è rimpiazzabile. Al Festival serviva quindi
un cambio di paradigma. Un altro modello da sviluppare».
Conosce
personalmente la signora Hoffmann?
«L’ho
incontrata ad Arles qualche anno fa. Nel mio ruolo resto comunque molto
prudente nel commentare la nomina. Non è ruolo del Consiglio federale nominare
il presidente o i direttori artistici. La Confederazione ha quale compito
accompagnare il Festival. E, a noi, ciò che importa è la qualità della
manifestazione. Sarebbe dunque indelicato commentare una scelta che appartiene
solo al Festival».
Auspica
che il suo successore sarà amico del Festival e del Ticino quanto lo è lei?
«La
politica culturale della Confederazione è molto importante. Certo, ci sono le
politiche sanitarie e sociali che hanno un’importanza immensa. Ma la politica
culturale è altrettanto importante. Io ho voluto mettere un accento forte sulla
cultura perché è un mondo che mi interessa particolarmente. Mi interessava
prima di entrare in politica e continuerà a interessarmi anche dopo. Sono
riuscito a sviluppare una politica culturale sul piano nazionale, che in
passato era inesistente. E quindi sì, auspico che ciò possa proseguire. Ma gli
accenti che verranno messi dal mio successore non mi appartengono».
Lei,
in ogni caso, resterà amico del Festival?
«Certamente.
Mi vedrete ancora da queste parti».
Oggi
il Festival riceve un cospicuo finanziamento da parte della Confederazione.
Quale importanza ha il Festival per sviluppare il cinema svizzero?
«Locarno
non ha come vocazione primaria sviluppare il cinema svizzero. Ci sono altri
festival che lo fanno molto bene, ad esempio Soletta. Locarno ha una vocazione
diversa, più internazionale. Anche se spesso vengono proiettati film svizzeri.
Ed è un piacere per i cineasti svizzeri poter mostrare i propri film a Locarno.
Poi, naturalmente, Locarno come capofila indiscutibile dei festival in Svizzera
ha anche un ruolo da giocare. È un festival molto osservato. E se Locarno si
interessa del cinema svizzero, avrà un effetto su tutti gli altri festival.
Penso sia giusto seguire la linea tracciata finora, trovando il giusto
equilibrio. Sul piano politico, il nostro ruolo è invece creare le condizioni
necessarie al cinema svizzero per poter fare un buon lavoro».
Viviamo
un’epoca di grandi divisioni. Pensiamo solo alla pandemia. Che cosa deve fare
la cultura per unire di più le persone?
«La
sua è una domanda essenziale. In Svizzera abbiamo spesso la tendenza a
definirci in maniera negativa. Detto altrimenti: non riusciamo sempre a dire
chi siamo, ma più facilmente riusciamo a dire chi non siamo; non siamo
francesi, non siamo italiani, non siamo tedeschi, non siamo membri dell’UE o
membri della NATO. Ma ciò non è sufficiente. Oltre a ciò, dobbiamo trovare pure
un elemento positivo che ci unisca. E questo elemento è immancabilmente legato
alla cultura. È la nostra identità. Quando ci definiamo in maniera positiva? Ad
esempio, quando siamo in vacanza e qualcuno nota che parliamo quattro lingue.
Ciò è vero soprattutto per i ticinesi. Ci definiamo quindi anche attraverso il
plurilinguismo. E siamo fieri di ciò. È una questione identitaria. E chi riesce
a tematizzare al meglio la nostra identità: la cultura. Non è un caso se le
autorità federali e il popolo hanno deciso nel 1958 di mettere un articolo
dedicato al cinema nella Costituzione. Ci siamo resi conto che il cinema è uno
strumento molto potente di definizione dell’identità. Abbiamo quindi un
interesse, nella definizione dell’identità del Paese, a sostenere il cinema. Ma
ciò vale anche per la letteratura, per la musica e per l’arte in generale. Sono
elementi della nostra identità che ci aiutano a capire chi siamo. E non è un
caso se il discorso del 1. agosto l’ho fatto davanti a un’opera d’arte».
Il
1. agosto serve anche per unire la Svizzera. È un momento importante. Resta
però l’impressione che il Paese sia un po’ diviso...
«Pensiamo
al COVID. In Ticino siete stati i primi ad essere colpiti dal virus, anche in
maniera brutale. Ero a Berna, in contatto con le autorità ticinesi. Con
alcuni vostri consiglieri di Stato parlavo al telefono dieci volte al giorno.
Per capire che cosa succedeva qui. E per spiegarlo a Berna. Il Ticino ha
protetto il resto della Svizzera. Siamo molto consapevoli di ciò. E sì, ci sono
state queste divisioni, legate all’incertezze del momento. In ogni situazione
di crisi e di incertezza, è normale che il nervosismo cresca. Credo che queste
divisioni non vadano sottostimate. Ma, soprattutto, penso siano state molto
meno profonde di quanto potessimo inizialmente credere. Si pensi alla prima
votazione sulla Legge COVID 2021: leggendo i media svizzero-tedeschi sembrava
avremmo nettamente perso la votazione. In realtà, è stato vero il contrario. Ma
è comprensibile: le persone contente non lo fanno notare, coloro che invece non
sono contenti si fanno sentire di più».
Che
cosa augura al Festival? E che cosa augura, invece, a Marco Solari?
«A Solari e al Festival auguro la stessa cosa: una
lunga vita e molta felicità. Sono le cose più importanti. Vale per il Festival,
vale per tutti noi e anche per Marco. È stato un privilegio lavorare con lui».