Enzo Ferrari, l’enigma dietro la leggenda
«Il cinema è passione e le passioni spesso diventano film», ci raccontò in un’intervista il grande regista e produttore americano, il compianto Sydney Pollack che, in gioventù, in Europa per la prima volta, si portò a casa come souvenir una Ferrari comprata ad un’asta in Belgio, spendendo tutti i soldi che aveva. Era stato un colpo di fulmine, poi divenne un’ossessione. La fece restaurare e si beava a guidarla, ma era così bella che era preso dal panico tutte le volte che doveva lasciarla in un parcheggio e alla fine fu costretto a venderla. Per anni aveva sognato di fare un film sul patron della mitica scuderia del Cavallino – esisteva anche una sceneggiatura – e ne parlava negli anni ‘90 con un altro «ferrarista» Michael Mann, il regista di Heat-La sfida; Alì; Collateral; Miami Vice. Che alla fine è riuscito nell’impresa presentando quest’anno al Festival del Cinema di Venezia il suo Ferrari, da oggi nelle nostre sale. Un film che non è una biografia, ma che cerca di svelare la tempra di un uomo, Enzo Ferrari, pilota diventato costruttore che sulla concezione delle sue auto scommise tutto se stesso, anche nel periodo più difficile e buio della sua vita.
Ispirato al libro di Brock Yates The Man and the Machine, basato sulla sceneggiatura di Troy Kennedy-Martin, il film racconta l’anno cruciale delle «rosse del cavallino» e di Enzo Ferrari, quel 1957 in cui muore il suo adorato figlio Dino, da anni malato di distrofia muscolare; in cui la sua azienda sembra non attirare più la sua ricca clientela e, mentre le banche stanno per chiudere i cordoni della borsa, nelle corse, la competizione tra la Ferrari e la Maserati, altra società di bolidi del modenese, si fa più aspra. La storia del film intreccia le vicende private e quelle pubbliche di Enzo Ferrari (Adam Driver), che si destreggia tra l’amareggiata moglie Laura (Penelope Cruz), anche sua pericolosa socia in affari e le insicurezze della sua nuova famiglia «segreta» con Lina Lardi (Shailene Woodley), e il figlio avuto con lei, un bambino di nome Piero. Su tutto incombe la stagione delle corse e la regina delle sfide: la Mille Miglia che coniuga tecnologia, velocità e glamour, capace di tenere l’Italia del dopoguerra con il fiato sospeso, l’unica grande occasione per monopolizzare i giornali italiani ed europei e non solo. Perciò ci si accaparra ad ogni costo i piloti più famosi, ci si litiga i più temerari, consci tuttavia che sarà il caso, o la fatalità a decidere il vincitore.
«Volevo raccontare Enzo Ferrari dietro quegli occhiali neri che sembrano la sua corazza e per farlo sono andato nella sua città, ho frequentato chi l’ha conosciuto, le sue strade, le sue case», ci ha confessato Michael Mann, svelandoci di essere rimasto contagiato dalla passione che ancora si respira a Modena per le corse, delle quali ci si ricorda come fosse ieri gli episodi epici e tragici di quegli anni eroici che hanno fatto la storia dell’automobilismo e che il film racconta in modo vivido ed emozionante.
Bello ed evocativo l’affresco di quell’Italia impegnata a riemergere dalla guerra, vitale, caparbia come il mondo delle corse con i vari patron che si agitano tesi dietro le quinte; i giornalisti che narrano, tifano, rendono famose le gesta dei piloti e delle loro fidanzate: l’aristocratico Alfonso de Portago, (Gabriel Leone), il guascone Eugenio Castellotti, e poi Fangio, Stirling Moss, Peter Collins (Jack O’Connell); solo per citarne alcuni, e poi il ruggito dei motori e il modo di guidare quei bolidi che, come ci ha raccontato Patrick Dempsey (attore e corridore automobilistico, nel film il pilota Piero Taruffi), lui è stato uno dei pochi a poter provare, ma solo eccezionalmente e fuori scena. Infatti nel film i suoni originali dei motori sono tutti frutto di accurate registrazioni avvenute prima dell’inizio delle riprese, quando anche le auto originali grazie alla scansione in 3D con tecnologia laser, sono state «copiate» ricreandone la carrozzeria per avere auto identiche per il film.
E il «Drake»? Enzo Ferrari, nel film a lui dedicato emerge ancora più enigmatico, Adam Driver non riesce a dargli un’anima, gli manca quell’afflato modenese, vitale, brusco e sanguigno, tinto di cinismo, che ne fece un mito e gli valse il soprannome di «pirata».