«Fare cinema non significa cambiare la realtà»
Il regista israeliano Avi Mograbi da anni racconta attraverso i suoi documentari le contraddizioni del suo Paese. Tra i suoi lavori più noti, Per uno solo dei miei due occhi, presentato nel 2005 al Festival di Cannes e il suo ultimo film, The First 54 Years: An Abbreviated Manual for Military Occupation (2021), in cui ha cercato di descrivere l’occupazione israeliana. Mograbi, ospite del Film Festival Diritti Umani, riceverà questa sera il Premio Diritti Umani al Cinema Corso di Lugano.
Da oltre vent’anni lei si
dedica a documentare le contraddizioni del suo Paese. Quali sono i suoi
pensieri a ormai un anno dal sette ottobre?
«Sono molto demoralizzato, ho trascorso tutta la mia vita in Israele
occupandomi della situazione nel mio Paese. Oggi ho 67 anni e mi sento perso,
credo che sia il modo giusto per descrivere quello che provo. Ho preso la
decisione di trasferirmi in Portogallo ancora prima dell’inizio della guerra,
mia moglie ed io avevamo già capito quali fossero le prospettive di continuare
a vivere in Israele, sentivamo la mancanza di speranza in un miglioramento. Non
vivo più lì, ma è come se ci fossi costantemente, non riesco a smettere di
leggere le notizie su ciò che accade. Puoi lasciare Israele, ma continua a
rimanere dentro di te. Mi sento in esilio volontario, ma non mi considero un
rifugiato. Non posso compararmi alle persone che fuggono dall’Africa o alle
loro situazioni, ma allo stesso tempo sono sicuro di poter condividere con
quelle persone la perdita della mia casa, che è qualcosa che mi manca molto».
Come valuta la situazione attuale?
«Israele sta commettendo dei crimini di guerra, ma questo non è qualcosa
di nuovo o che è cominciato il 7 ottobre. Non sostengo di certo Hamas e quanto
è successo, ma non possiamo pensare a questa data come a un inizio, sarebbe un
grave errore. Parliamo di un conflitto che dura da 75 anni e di uno Stato che
dipende dai crimini di guerra e dalle violazioni dei diritti degli altri e dei
diritti dei palestinesi. Quando parliamo della fondazione dello Stato di Israele
molte volte si menziona la guerra del 1948, che vista dal punto di Israele si
tratta di una guerra per l’indipendenza, mentre da quello palestinese di una
catastrofe, della Nakba. Diciamo spesso che molte persone sono dovute fuggire
dalle loro case, ma non precisiamo mai che quando la guerra è finita non gli è
stato permesso di ritornare. Questo è il crimine reale, il fatto di non essere
stati autorizzati al diritto base di ogni essere umano, che si trovi in guerra
oppure no, poter far ritorno nella propria casa. Durante la prima guerra del
Golfo, mia moglie ed io siamo dovuti scappare dalla nostra casa di Tel Aviv
aspettando che la situazione migliorasse. Neppure in quelle circostanze abbiamo
pensato di non poter più tornare a casa una volta finita la guerra. La
situazione che si è creata nel 1948 è qualcosa che non ci si può nemmeno
immaginare».
Lei
è tra i fondatori di Breaking the silence, un gruppo nato per raccogliere le
testimonianze di ex militari che hanno prestato servizio nei territori occupati
e molti di questi racconti fanno parte dei suoi film, come nel suo ultimo
lavoro The First 54 Years: An
Abbreviated Manual for Military Occupation (2021). Quali
sono state le difficoltà nel raccogliere queste testimonianze?
«È molto interessante osservare come ci siano periodi in
cui tutto tace e altri in cui si trovino molti testimoni, come quello che
stiamo attraversando ora, in cui le persone sono impegnate in lavori sporchi e
quindi sentono la necessità di parlare, hanno bisogno di trovare sollievo per
le cose orribili che hanno fatto. Molti dei militari che hanno servito a Gaza
vogliono testimoniare anche se hanno partecipato. È sempre un paradosso, il
soldato che testimonia dei crimini che lui stesso ha compiuto, da una parte capisce
di averli commessi, ma allo stesso tempo ha bisogno di condividerli con altri
come parte di un processo di
guarigione».
Prima del 7 ottobre in
Israele si percepiva un certo dissenso, per mesi abbiamo visto decine di
migliaia di persone manifestare contro la riforma giudiziaria. Secondo lei
quanto la società israeliana è permeabile oggi alla critica del governo?
«I media israeliani sono morti, come lo è la sinistra. La
sua sottile frazione radicale è ormai sempre più esile e fragmentata, e questo
è molto triste. Si è parlato molto del suo ruolo, ma la sinistra non esiste
realmente. Quella che si pensava che lo fosse, per mesi è scesa in piazza a
manifestare per la democrazia, ma si trattava di una richiesta fatta soltanto per
una parte della società, nessuno parlava dei diritti dei palestinesi. Questo è
il tipo di sinistra che esiste in Israele e i media sono solamente dei portavoce
che fanno da cassa di risonanza al governo e alle sue bugie, supportandone i
crimini».
I suoi film rimettono costantemente in discussione la
realtà che lei riprende. È possibile raccontare la realtà di questo conflitto?
Quale
pensa sia l’impatto del cinema sulla realtà?
«Credo che ci accostiamo al cinema
impegnato e al cinema che parla di diritti umani in un modo ingenuamente
errato. Fare cinema non significa cambiare la realtà. Facciamo dei film critici
perché la nostra comunità ha bisogno di essere incoraggiata, è un pensiero
verso noi stessi. Spesso mi sento dire che i miei documentari parlano ai già
convertiti. Per me è come se parlassi ai miei amici, per condividere con loro,
per sostenerci l’un l’altro. Non mi aspetto che chi non la pensa come me venga
a vedere i miei film».