L'intervista

«Fare cinema non significa cambiare la realtà»

A tu per tu con Avi Mograbi, premio Diritti Umani per l’autore 2024
Viviana Viri
18.10.2024 06:00

Il regista israeliano Avi Mograbi da anni racconta attraverso i suoi documentari le contraddizioni del suo Paese. Tra i suoi lavori più noti, Per uno solo dei miei due occhi, presentato nel 2005 al Festival di Cannes e il suo ultimo film, The First 54 Years: An Abbreviated Manual for Military Occupation (2021), in cui ha cercato di descrivere l’occupazione israeliana. Mograbi, ospite del Film Festival Diritti Umani, riceverà questa sera il Premio Diritti Umani al Cinema Corso di Lugano.  

Da oltre vent’anni lei si dedica a documentare le contraddizioni del suo Paese. Quali sono i suoi pensieri a ormai un anno dal sette ottobre?
«Sono molto demoralizzato, ho trascorso tutta la mia vita in Israele occupandomi della situazione nel mio Paese. Oggi ho 67 anni e mi sento perso, credo che sia il modo giusto per descrivere quello che provo. Ho preso la decisione di trasferirmi in Portogallo ancora prima dell’inizio della guerra, mia moglie ed io avevamo già capito quali fossero le prospettive di continuare a vivere in Israele, sentivamo la mancanza di speranza in un miglioramento. Non vivo più lì, ma è come se ci fossi costantemente, non riesco a smettere di leggere le notizie su ciò che accade. Puoi lasciare Israele, ma continua a rimanere dentro di te. Mi sento in esilio volontario, ma non mi considero un rifugiato. Non posso compararmi alle persone che fuggono dall’Africa o alle loro situazioni, ma allo stesso tempo sono sicuro di poter condividere con quelle persone la perdita della mia casa, che è qualcosa che mi manca molto».

Come valuta la situazione attuale?
«Israele sta commettendo dei crimini di guerra, ma questo non è qualcosa di nuovo o che è cominciato il 7 ottobre. Non sostengo di certo Hamas e quanto è successo, ma non possiamo pensare a questa data come a un inizio, sarebbe un grave errore. Parliamo di un conflitto che dura da 75 anni e di uno Stato che dipende dai crimini di guerra e dalle violazioni dei diritti degli altri e dei diritti dei palestinesi. Quando parliamo della fondazione dello Stato di Israele molte volte si menziona la guerra del 1948, che vista dal punto di Israele si tratta di una guerra per l’indipendenza, mentre da quello palestinese di una catastrofe, della Nakba. Diciamo spesso che molte persone sono dovute fuggire dalle loro case, ma non precisiamo mai che quando la guerra è finita non gli è stato permesso di ritornare. Questo è il crimine reale, il fatto di non essere stati autorizzati al diritto base di ogni essere umano, che si trovi in guerra oppure no, poter far ritorno nella propria casa. Durante la prima guerra del Golfo, mia moglie ed io siamo dovuti scappare dalla nostra casa di Tel Aviv aspettando che la situazione migliorasse. Neppure in quelle circostanze abbiamo pensato di non poter più tornare a casa una volta finita la guerra. La situazione che si è creata nel 1948 è qualcosa che non ci si può nemmeno immaginare».

Lei è tra i fondatori di Breaking the silence, un gruppo nato per raccogliere le testimonianze di ex militari che hanno prestato servizio nei territori occupati e molti di questi racconti fanno parte dei suoi film, come nel suo ultimo lavoro The First 54 Years: An Abbreviated Manual for Military Occupation (2021). Quali sono state le difficoltà nel raccogliere queste testimonianze?
«È molto interessante osservare come ci siano periodi in cui tutto tace e altri in cui si trovino molti testimoni, come quello che stiamo attraversando ora, in cui le persone sono impegnate in lavori sporchi e quindi sentono la necessità di parlare, hanno bisogno di trovare sollievo per le cose orribili che hanno fatto. Molti dei militari che hanno servito a Gaza vogliono testimoniare anche se hanno partecipato. È sempre un paradosso, il soldato che testimonia dei crimini che lui stesso ha compiuto, da una parte capisce di averli commessi, ma allo stesso tempo ha bisogno di condividerli con altri come parte di un processo di guarigione».

Prima del 7 ottobre in Israele si percepiva un certo dissenso, per mesi abbiamo visto decine di migliaia di persone manifestare contro la riforma giudiziaria. Secondo lei quanto la società israeliana è permeabile oggi alla critica del governo?
«I media israeliani sono morti, come lo è la sinistra. La sua sottile frazione radicale è ormai sempre più esile e fragmentata, e questo è molto triste. Si è parlato molto del suo ruolo, ma la sinistra non esiste realmente. Quella che si pensava che lo fosse, per mesi è scesa in piazza a manifestare per la democrazia, ma si trattava di una richiesta fatta soltanto per una parte della società, nessuno parlava dei diritti dei palestinesi. Questo è il tipo di sinistra che esiste in Israele e i media sono solamente dei portavoce che fanno da cassa di risonanza al governo e alle sue bugie, supportandone i crimini».

I suoi film rimettono costantemente in discussione la realtà che lei riprende. È possibile raccontare la realtà di questo conflitto? Quale pensa sia l’impatto del cinema sulla realtà?
«Credo che ci accostiamo al cinema impegnato e al cinema che parla di diritti umani in un modo ingenuamente errato. Fare cinema non significa cambiare la realtà. Facciamo dei film critici perché la nostra comunità ha bisogno di essere incoraggiata, è un pensiero verso noi stessi. Spesso mi sento dire che i miei documentari parlano ai già convertiti. Per me è come se parlassi ai miei amici, per condividere con loro, per sostenerci l’un l’altro. Non mi aspetto che chi non la pensa come me venga a vedere i miei film».