Locarno Film Festival

«Fellini? Era di famiglia, lo chiamavo "zio Federico"»

L'ottantunenne ha ricevuto il Life Achievement Award
©Locarno Film Festival / Ti-Press
Antonio Mariotti
11.08.2023 06:00

Giona Nazzaro ce lo aveva anticipato: «Ci tengo molto che il nome di Renzo Rossellini entri a far parte della storia del Festival di Locarno». Questo desiderio è diventato realtà ieri sera in Piazza Grande, con la consegna del Life Achievement Award all’oggi ottantunenne produttore de La città delle donne,  poi proiettato in seconda serata. Un riconoscimento ancora più significativo, poiché è il primo che gli viene assegnato in campo cinematografico. 

Regista a sua volta, come produttore ha lavorato, oltre che con Fellini, anche con nomi del calibro di Werner Herzog, Lina Wertmüller e Francis Ford Coppola e, come aiuto regista, tra gli altri, con il padre Roberto, François Truffaut e Claude Chabrol. Purtroppo Renzo Rossellini è giunto a Locarno in condizioni di salute non ideali (si sposta su una sedia a rotelle, fatica ad articolare le parole) e durante l’incontro che ha tenuto con la stampa è stato il figlio Alessandro (anche lui attivo nel cinema come regista e sceneggiatore e autore tra l’altro del documentario The Rossellinis) a completare il suo pensiero e ad approfondire le sue riflessioni. Qui di seguito il resoconto di questa peculiare, e per molti versi commovente conversazione.

Nel suo libro su Fellini, Tullio Kezich cita una sua frase: «Non c’era Papa abbastanza grande per Michelangelo, non c’è produttore abbastanza grande per Fellini». Come si è svolta la vostra collaborazione su La città delle donne?
«Poter lavorare con Fellini era un’occasione particolare per me, perché lo chiamavo zio, ho cominciato a frequentarlo da piccolo a casa di mio padre e quindi è come se facesse parte della mia famiglia. Da una parte quindi c’era questo legame d’intimità, mentre dall’altra avevo a che fare con un regista molto esigente da tutti i punti di vista, anche da quello economico. Federico del resto, come tutti i registi, aveva i suoi metodi per manipolare i produttori. Ogni giorno arrivava a Cinecittà in metropolitana e io dovevo andare a prenderlo alla stazione. Durante il tragitto in auto fino allo Studio 5, ogni volta aveva una richiesta. Iniziava col dire: ho fatto un sogno… Ho fatto un sogno di costruire un grande scivolo… E ogni suo sogno costava centinaia di milioni di lire, ma come potevo dire di no al regista dei sogni?».

Tra i tanti film che lei ha distribuito con successo c’è stato 9 settimane e ½ di Adrian Lyne (1986): com’è cambiata secondo lei l’immagine della donna e della sessualità al cinema negli ultimi decenni? Allora c’era più libertà e ora c’è più pudicizia?
«Diciamo che c’è stato un periodo in cui si poteva essere, nel bene e nel male, maschilisti mentre oggi vigono le regole del politically correct ed è nato giustamente un movimento come MeToo. I rapporti tra gli uomini e le donne sono cambiati completamente. Comportarsi da gentlemen  non è più ben visto: aprire le porte alle signore, fare il baciamano, le cose che faccio io insomma, non si fanno più perché la donna non è più il sesso debole. E tutto ciò è cambiato anche al cinema. Io, come tutti gli uomini nati negli anni Quaranta,  mi rendo conto di avere una visione del femminile molto poco contemporanea ma capisco queste nuove visioni della donna che si trovano nei film di oggi  mi pare molto corretta. Non c’è però molta comprensione per chi, come me, ha una cultura diversa  alle spalle. E questo vale anche per mio padre, un uomo modernissimo che ha fatto delle scelte molto profilate in questo ambito.  Basti pensare al suo rapporto con Anna Magnani,  un’attrice che ha avuto una carriera molto importante anche a livello internazionale senza appoggi particolari; o a quello con Ingrid Bergman, una femminista ante litteram capace di abbandonare Hollywood per venire in Italia».

Da questo punto di vista come vede oggi La città delle donne?
«È difficile immaginare cosa direbbe oggi Federico Fellini, ma il film mi pare un’autocritica molto forte da questo punto di vista. Dentro la storia di ogni film c’è sempre molto da scoprire».

Nel 1962 lei ha diretto il suo unico film di fiction: l’episodio italiano della coproduzione internazionale L’amore a vent’anni. Che esperienza è stata?
«Avevo davvero vent’anni allora e si trattava di raccontare quel particolare periodo storico, soprattutto per ciò che riguarda i rapporti tra uomini e donne. Il film però è stato molto criticato e non ha avuto molto successo».

Qualche anno fa lei si era espresso molto criticamente sulla scarsa attenzione che era stata dedicata a un importante anniversario che riguardava suo padre. Questo malcostume ha coinvolto purtroppo anche altri grandi registi italiani: come vede questa tendenza?
«Ho dedicato gran parte dei miei ultimi anni di lavoro a occuparmi dell’opera di mio padre Roberto Rossellini. Non solo per ciò che riguarda i suoi film, ma anche per cercare di concludere la sua enciclopedia umanistica che stiamo cercando da tempo di rendere accessibile su qualche piattaforma. Credo fortemente nella visione dell’uomo trasmessa da mio padre e soprattutto nella missione della promozione della cultura. Purtroppo si tratta di una cosa per cui non c’è più alcuno spazio nell’Italia di oggi. E ciò è molto grave».

Lei è sempre stato un uomo molto impegnato politicamente ed è stato anche un produttore cinematografico: qual è il suo punto di vista sugli scioperi attualmente in corso ad Hollywood?
«Beh, parliamo della suddivisione non di milioni, ma di miliardi di dollari che non arrivano nelle tasche di chi lavora».

Come produttore qual è stata la sua relazione con i registi con cui ha collaborato?
«Sono sempre stato innamorato dei progetti che ho prodotto e quindi anche dei loro creatori, delle loro idee. Ho sempre considerato l’aspetto economico del mio lavoro secondario rispetto alla qualità dei film. Ero pronto a indebitarmi pur di rispettare la visione del regista e penso che oggi siano ben pochi i produttori italiani pronti ad indebitarsi, anche perché i film si costruiscono in modo molto diverso rispetto ai miei tempi».

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