Giovani supereroi crescono

Nella primavera del 2016 le sorti del Marvel Cinematic Universe cambiavano radicalmente con l’entrata in scena di Spider-Man nel film Captain America: Civil War. Fino ad allora il più noto eroe della Casa delle Idee era stato di competenza della Sony Pictures per quanto riguarda il cinema, il che precludeva la possibilità di vederlo al fianco di Iron Man e compagnia bella. Poi, complice un accordo tra le due parti, è stato possibile assistere a un duplice percorso: quello Marvel, con Peter Parker «in prestito» e con certi vincoli contrattuali (nello specifico, nei suoi filmquale protagonista deve essere affiancato da almeno un altro supereroe), e quello Sony, che ha costruito un nuovo franchise che ruota intorno ai cattivi, a partire da Venom (e prossimamente arriverà nelle sale Morbius). Le trattative hanno rischiato di non andare a buon termine nel 2019, ma almeno per ora il giovane supereroe può continuare a vivere nel mondo cinematografico Marvel. E Spider-Man: No Way Home ridefinisce quello status quo in modo sorprendente e audace.
Il nuovo film inizia esattamente dove finiva il precedente Spider-Man: Far From Home, con Peter (Tom Holland) accusato delle malefatte di Mysterio e smascherato in pubblico. La cosa ha ripercussioni negative soprattutto su parenti e amici, e così lui si rivolge a Doctor Strange (Benedict Cumberbatch), chiedendogli se sia possibile sistemare la cosa. Il mago propone un incantesimo che farà dimenticare a tutti l’identità segreta di Spider-Man, ma il sortilegio è instabile e ha un effetto collaterale inatteso: da altri universi arrivano individui che hanno avuto a che fare con altre versioni di Peter e conoscono il suo segreto. Individui sconosciuti al nostro Peter, ma ben noti al pubblico: si tratta infatti di Norman Osborn (Willem Dafoe), Otto Octavius (Alfred Molina) e Flint Marko (Thomas Haden Church), antagonisti nella trilogia di Sam Raimi (2002-2007); e di Curt Connors (Rhys Ifans) e Max Dillon (Jamie Foxx), che diedero del filo da torcere al protagonista dei due film diretti da Marc Webb (2012-2014).

Per mesi si è parlato di questo lungometraggio come di un esempio lampante di «fan service», qualcosa che esiste per soddisfare solo gli appassionati con ammiccamenti vari, fenomeno a cui abbiamo assistito in tempi recenti anche con il sequel di Space Jam e il ritorno sullo schermo dei Ghostbusters. E c’è indubbiamente quel fattore in gioco se si considera che, seppure con qualche mese di anticipo, questa nuova avventura è a tutti gli effetti una celebrazione di vent’anni di storie di Spider-Man al cinema, celebrazione esemplificata anche dal singolare ringraziamento, nei titoli di coda, rivolto ad Avi Arad, produttore di gran parte degli adattamenti Marvel usciti prima che la casa editrice si mettesse in proprio con la sua divisione cinematografica. Ma c’è anche un criterio dietro la scelta di far interagire Tom Holland con attori legati ad altre versioni di Spider-Man, e non solo perché – come sa chi ha visto Loki su Disney+ – adesso è diventato importante il Multiverso; ciascuno degli ospiti venuti da molto lontano ha un ruolo che va oltre la semplice comparsata (in particolare Foxx, che nel 2014 era quasi macchiettistico e qui riesce a regalarci un personaggio a tutto tondo) e contribuisce alla progressiva maturazione di un Peter Parker che sta ancora imparando la lezione dei grandi poteri e delle grandi responsabilità.
Dopo due episodi generalmente più leggeri, in linea con la volontà di rifarsi alle atmosfere liceali delle commedie di John Hughes, No Way Home prende il giovane eroe di quartiere e lo trasforma, riposizionandolo all’interno del Marvel Cinematic Universe con scelte intelligenti, in parte scioccanti e senza ombra di dubbio coraggiose. E lo fa senza perdere di vista la componente spettacolare, i cui momenti migliori promettono bene anche per il prossimo progetto Marvel del regista Jon Watts, recentemente incaricato di riportare sullo schermo i Fantastici Quattro. È il tipo di divertimento che, come dimostrato anche dalle cifre riportate nei primi giorni di programmazione, ci ricorda quanto possa essere piacevole l’esperienza collettiva in sala.