«Il montaggio è ciò che dà un’anima al film»
Ieri sera il Locarno Film Festival ha reso omaggio con il Vision Award Ticinomoda 2023 al montatore Pietro Scalia – italiano, cresciuto in Svizzera e poi approdato a Hollywood – che ha collaborato con alcuni dei registi più rappresentativi della contemporaneità, da Oliver Stone a Ridley Scott, fino a Bernardo Bertolucci. Vincitore di due premi Oscar, Scalia ha saputo portare una nuova sensibilità all’interno della sua professione.
Pietro Scalia, lei nato in Italia e cresciuto in Svizzera, quando ha cominciato a lavorare con Oliver Stone?
«Dopo il master in Film and Theatre Arts alla University of California di Los Angeles ho lavorato come assistente al montaggio e come capomontatore per vari registi. L’incontro decisivo è stato quello con Oliver Stone nel 1987, con cui ho vinto il mio primo Oscar a trentun anni: un’enorme sorpresa che mi ha aperto le porte del cinema e mi ha regalato il lusso della scelta tra le sceneggiature che mi venivano proposte».
E che cosa la guida nelle scelte?
«Quando sei giovane e cominci una carriera devi tener conto di molte cose, anche dei finanziamenti, però in primo luogo ti deve piacere la sceneggiatura. Ti fai una prima idea, ma nel corso del lavoro, quando arriva il materiale girato, la cosa cambia. Si dice sempre che un film viene fatto in tre fasi: la prima è la sceneggiatura, la seconda è il girato e la terza è il montaggio. Ecco che allora un’altra cosa importante nella scelta è la sintonia col regista, perché il montatore è quello che gli sta più vicino. Durante le riprese anche tutti gli altri collaboratori sono vicini al regista, ma il montaggio è qualcosa di molto più intimo e più personale: si tratta di dare uno spessore di verità a qualcosa che per sua stessa natura è artificiale. Mentre si gira, le emozioni possono essere vere o simulate, ma lo spettatore ci deve credere, e allora dare un’anima al film è importante. È questo, secondo me, il compito del montatore».
E come si riesce a trovarla, quest’anima?
«È nel primo confronto tra il materiale e la persona che lo visiona, ossia il montatore, e nelle sue scelte. Alla fine la scelta è personale: si tratta della mia reazione, della mia sensibilità estetica, della mia percezione della sincerità di una ripresa. Ci sono poi modi per manipolare certi elementi e per creare un mondo che sulla scena diventa credibile».
Ci sono dei registi con cui le piace di più lavorare o dei generi che preferisce?
«Ho sempre lavorato con registi che mi piacevano, però i metodi di lavoro sono diversi. Ad esempio Oliver Stone guardava brevemente il materiale, lasciava degli appunti per noi giovani, e poi ritornava sul materiale montato il giorno dopo. Invece Van Sant e Bertolucci amavano stare in sala di montaggio. Bernardo leggeva il giornale e mi raccontava di quello che leggeva; oppure parlava di Renoir o di Pasolini o di Godard. Van Sant suonava la chitarra, ma entrambi sapevano perfettamente dove eravamo, erano presenti, anche se in una maniera molto rilassata e personale. Con Ridley Scott invece era completamente diverso».
C’è una specificità nel montaggio di un genere piuttosto che un altro, di un film d’azione, come Black Hawk Down di Ridley Scott e uno più intimista come Good Will Hunting di Gus Van Sant, ad esempio?
«Sono due film completamente diversi, è vero, ma hanno un elemento in comune: il tipo di esperienza che fanno vivere allo spettatore. Entrambi gli danno la sensazione di essere storie vere e lo fanno entrare come una presenza partecipe nel film. In Good Will Hunting che è basato soprattutto sui dialoghi, era importantissimo non solo il tipo di parlato, il dialetto del sud di Boston che usano Ben Affleck e Matt Damon, ma il ritmo del parlato e dell’improvvisazione nella recitazione. Il taglio doveva essere quasi chirurgico: bisognava mantenere la fluidità, anche quando certi dialoghi si sovrapponevano».
E per quanto riguarda i film d’azione?
«Nei film d’azione, data la complessità, le scene vengono girate in brevi sequenze che poi si devono unire. Con Ridley Scott però è successo l’opposto. Invece di girare delle microscene da rimettere insieme, ha deciso di usare undici macchine da presa: due principali, due steady cam, oltre a camere a mano, alle cosiddette crash camera, a quelle dagli elicotteri. Erano così sequenze lunghissime da otto, dieci minuti, sotto varie angolazioni. A livello di montaggio il risultato andava però ricomposto in modo da simulare la realtà e salvare la contemporaneità attraverso delle riprese specifiche. Il taglio deve essere molto preciso: posso dire che in quel film per me l’azione era il dialogo».
In generale, che cosa le interessa di più mostrare?
«La cosa più bella per me, soprattutto quando lavoro su scene drammatiche con bravi attori, è restituire il non detto. Gli autori giapponesi del passato che ammiro, come Mizoguchi, Ozu, sono abilissimi nel farci percepire lo spazio, l’aria che si crea tra i personaggi. È questo il senso del montaggio: il significato che esiste tra un’immagine e l’altra. Sono le cose non dette che si sentono attraverso le immagini e che generano una risposta emotiva. Le emozioni vere le riconosci subito, arrivano alla pancia».
Lei cita il passato del cinema: quanto è cambiato questo mondo?
«Io ci lavoro da trentasei anni, ma secondo me sono gli ultimi vent’anni che hanno visto un cambio radicale. Se parliamo del cinema d’autore, almeno negli Stati Uniti, i talenti sono dispersi. Ci sono giovani registi molto interessanti, Robert Eggers (The Witch), Greta Gerwig (Barbie) per esempio, ma oggi nella macchina hollywoodiana la vera creatività non ha spazio. La maggior parte dei film vengono fatti dagli studio, con comitati che decidono. Sono pochi quelli che hanno un controllo sul film, da film-maker intendo. Ci sono Spielberg, Scorsese, Denis Villeneuve, Michael Mann con Ferrari che uscirà a Venezia, Christopher Nolan con Oppenheimer, ma il cinema è una macchina, un’industria e sta vivendo un momento di crisi. Il modello di cinema sta cambiando e noi siamo proprio nel mezzo di questo cambiamento».