Classici e cult

La recensione di C’era una volta in America

La recensione del film di Sergio Leone
Michele Montanari
01.02.2021 11:22

Con la recensione di C’era una volta in America, ultima opera del regista italiano Sergio Leone, uscita nel 1984, inauguriamo la sezione «Classici e cult» del Corriere del Ticino. Un film che all’epoca non venne accolto con troppo entusiasmo, ma che oggi è consacrato come un capolavoro assoluto del cinema.

La macchina del tempo

Il tempo che scorre inesorabile, lasciando sulla pelle rughe e cicatrici, ma anche il tempo che annebbia la mente, trasformando i ricordi in stralci di vita distorti e sfumati. C’era una volta in America va idealmente a chiudere la cosiddetta trilogia del tempo, portando a compimento quel viaggio malinconico/nostalgico iniziato con C’era una volta il west e proseguito con Giù la testa. Sergio Leone non poteva dunque mettere in scena un film lineare, anche se negli Stati Uniti ne venne proiettata una versione falciata di ben 81 minuti e montata in ordine cronologico: uno stupro vero e proprio. In C’era una volta in America i numerosi flashback e flashforward diventano tasselli fondamentali di un gioco di scatole cinesi in cui vengono ingabbiati i personaggi dell’opera e, di conseguenza, gli spettatori. Un racconto che trova nella colonna sonora di Ennio Morricone il perfetto accompagnamento musicale al flusso nebuloso dei ricordi (e dei sogni).

La storia di C’era una volta in America, tratta dal romanzo The Hoods di Harry Grey, racconta la scalata, l’epopea e la disfatta di un gruppo di gangster nell’arco di quarant’anni, intrecciandosi più volte sulla linea del tempo. Il David «Noodles» Aaronson (Robert De Niro) che negli anni 30, in pieno proibizionismo, fugge dai sicari che lo vogliono morto, e prende un treno da New York a Buffalo, sta in realtà salendo su un treno verso la vecchiaia. Proprio dalla stazione di Coney Island parte il primo vertiginoso salto sulla macchina del tempo di Leone: le note di Yesterday dei Beatles ci catapultano nella Grande Mela, 30 anni dopo, con un De Niro canuto e terribilmente invecchiato. Noodles anziano incontra l’amico d’infanzia Fat Moe, proprietario del bar in cui, anni addietro, lo stesso Noodles (adolescente) spiava l’amata Deborah (Jennifer Connolly ragazzina e Elizabeth McGovern adulta) attraverso un buco nel muro. Noodles (anziano) torna - in quello che sembrerebbe il presente del film, gli anni 60 - a guardare attraverso la fessura e Leone, con un altro balzo temporale, ci porta negli anni 20. I ricordi del protagonista si materializzano di colpo: Deborah danza nel magazzino e lui la ammira di nascosto, assaporando tutta la maliziosa innocenza della ragazzina (lei sa di essere spiata). Questi sono solo due esempi dei salti temporali congegnati dal regista romano, che hanno reso un’opera come C’era una volta in America ancora oggi difficile da decifrare fino in fondo.

L’amicizia sepolta nei ricordi

Il tema dell’amicizia virile, già esplorato a fondo in Giù la testa, qui diventa corale e soprattutto parte da più lontano: Noodles, Max (James Woods), Patsy (James Hayden), Cockeye (William Forsythe) e Dominic sono amici fraterni, prima di essere una piccola gang di ragazzini che giocano a fare i grandi. E col passare del tempo - tolto Dominic - i quattro rimangono sodali inseparabili, prima di essere un affermato gruppo di malviventi. Sarà però il rapporto tra Noodles e Maximilian «Max» Bercovicz a prendersi tutta la scena, con momenti di intensità che superano di gran lunga l’amore dei protagonisti per le «loro» donne, sia quelle amate da sempre (Deborah), sia quelle arrivate dopo. Le ambizioni non condivise da Noodles e la presunta follia di Max, porteranno i due a scontrarsi, anche in modo violento, come farebbero due fratelli. Liti e divergenze che non arrivano mai alla distruzione totale del legame, sia esso amicizia o amore, come l’inaspettato e controverso stupro di Noodles ai danni dell’amata Deborah, dopo una notte da favola. Il rapporto tra i due diventa altro solo nell’incontro finale, negli anni 60, quando altro è diventato anche Max: quel senatore Bailey che Noodles fingerà di non riconoscere, perché incapace di accettare l’inganno e il tradimento dell’amico che credeva morto. Max è defunto e rimarrà per sempre sepolto come amico perduto, vivo solo nei ricordi del personaggio interpretato da De Niro.

La fumeria d’oppio e il sogno

C’era una volta in America, oltre ad avere una struttura per nulla lineare, è un’opera talmente densa di temi e suggestioni da prestarsi a diverse chiavi di lettura. Col tempo la teoria del sogno ha preso sempre più piede, diventando forse quella maggiormente accreditata, nonostante si possano comunque trovare incongruenze in grado di smontarla. L’opera si apre e si chiude in una sorta di non luogo, un teatro cinese con annessa fumeria d’oppio, dove Noodles trova rifugio (fisico e metafisico) dopo la morte dei suoi compagni. Partirebbero proprio da qui le visioni del protagonista: tutto quello che nel film accade dopo gli anni 30, sarebbe un’allucinazione causata dall’assunzione di droga. Una sorta di sogno in cui David Aaronson immagina il suo futuro, fatto di misteri e inganni, per pulirsi la coscienza dai rimorsi e accettare la morte degli amici e, in particolare, di Max. Proprio lui, verrà trasfigurato dalla mente di Noodles nel senatore Bailey, il grande traditore. E non solo. Deborah, la donna amata più di ogni altra cosa, è l’unico personaggio che non invecchia. Come se la mente di Noodles fosse incapace di immaginarla sfiorita dal passare del tempo. Deborah che avrà una relazione (improbabile, tra i due non correva buon sangue) e un figlio con Max/Bailey: ancora una volta il subconscio del protagonista sembra voler aggiungere colpe (l’avergli rubato la donna) all’amico, quasi fosse un ulteriore strato di corazza per proteggersi dai rimorsi. Come inverosimile è l’aspetto del figlio di Deborah e Bailey: è identico a Max da giovane (lo interpreta lo stesso attore). Noodles lo vede uguale all’amico di infanzia, come se quel figlio fosse un atto creativo della sua mente (senza troppa immaginazione). E poi c’è quel telefono che suona incessantemente, sovrapponendosi come un rumore di disturbo alle immagini di un sogno da cui non si riesce a svegliarsi. Nell’ultimo dialogo tra i personaggi interpretati da Robert De Niro e James Woods, torna la ricerca di una coscienza pulita: Max dice a Noodles: «Ti ho preso tutto, ti ho lasciato con 35 anni di rimorso», chiedendogli poi di ucciderlo. Ma Noodles rifiuta e preferisce il suo modo di vendicarsi, il suo «modo di vedere le cose», prima della visione finale, in cui futuro (il camion della nettezza urbana con Bailey che sembra buttarsi nel tritarifiuti) e presente (l’auto anni 30 dei giovani che fanno festa) si uniscono come in un cortocircuito onirico. Il sorriso «giocondiano» di Noodles nel teatro cinese chiude il film, lasciando il dubbio di aver assistito a un lungo viaggio mentale sotto l’effetto di oppiacei. Un lungo viaggio che consegna C’era una volta in America alla storia della settima arte, lasciandolo ancora oggi un oggetto nebuloso e sfocato, come uno di quei sogni di cui al risveglio si ricorda solo qualche pezzo e si sente il bisogno di raccontare a qualcuno.

Scene memorabili

La charlotte russa

Ragazzini che vogliono fare i grandi, cresciuti troppo in fretta, come piccoli gangster, nelle strade del ghetto ebraico di New York. La scena della charlotte russa (rigorosamente con la panna, perché «senza panna, Peggy te lo sbatte solo con la mano») racchiude in pochi minuti il concetto: il giovane Patsy davanti al bivio del sesso con una prostituta, l’essere adulto, e mangiare il gustosissimo dolcetto, segue la strada dell’infanzia. Mentre le dita del giovane si infilano avide nella panna della charlotte russa, si cancella all’istante quella spavalderia che lo ha portato davanti alla porta di Peggy, facendo i gradini due a due, per fare «una cosa da grandi».

La tazzina di caffè

Oltre un minuto di silenzio. In sottofondo solo il rumore del cucchiaino con cui Noodles mescola il caffè. Il gioco di sguardi detta il ritmo, è lo stesso che ha reso grandi gli spaghetti western di Sergio Leone: i personaggi osservano il protagonista in attesa di una risposta, una reazione, che sembra non arrivare mai. Vediamo un uomo che sta per bere un caffè, ma la tensione in questa scena sembra quella che si respira prima di una sparatoria all’ultimo sangue. Davvero pochi registi possono permettersi una cosa del genere.

Citazioni

Fat Moe: «Noodles, cos’hai fatto in tutti questi anni?»

Noodles: «Sono andato a letto presto»

Voto: 9/10