Classici e cult

La recensione di Ferro 3 - La casa vuota

Le recensione del film di Kim Ki-duk
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Michele Montanari
11.02.2021 14:50

Tra le vittime illustri del coronavirus c’è anche il regista Kim Ki-duk, scomparso l’11 dicembre del 2020 a Riga, in Lettonia, a causa di complicazioni legate alla COVID-19. Per la sezione «Classici e cult» del CdT abbiamo scelto di recensire Ferro 3 – La casa vuota, capolavoro dell’artista sudcoreano uscito nel 2004.

Non servono parole

Un «ti amo» che arriva dopo una lunghissima attesa e, come un proiettile, colpisce dritto al cuore. In Ferro 3 - La casa vuota, vincitore del Premio speciale per la regia alla 61.esima Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia, il regista Kim Ki-duk dipinge una storia d’amore originalissima, silenziosa, incorporea. Un’opera impensabile per i canoni del cinema occidentale, con i suoi dialoghi ridotti all’osso che la rendono praticamente un film muto. I protagonisti, fantasmi in carne ed ossa, non si parlano mai, ma riescono a dire tantissimo con gli sguardi, con piccoli gesti. Non servono parole, e quell’unico «ti amo», sul finale, arriva quasi con violenza, come le esplosioni di sangue tipiche del cinema dell’autore sudcoreano. Tae-suk e Sun-hwa vivono di poco, contrariamente alla società moderna, schiava del consumismo. Non hanno bisogno di tutte le «cianfrusaglie» che trovano nelle case vuote. Anche una lavatrice per i vestiti sporchi diventa un lusso. Il cineasta asiatico, appassionato di pittura, abbandona le suggestive inquadrature all’aperto di un’opera come L’isola e dirige un film in spazi chiusi, con una precisione millimetrica, con gli attori che si incastrano alla perfezione negli ambienti interni. Siano essi la sala di una casa, una cucina o la cella di una prigione.

Riempire il vuoto, aggiustare un cuore rotto

«No place to call home» cantava Layne Staley, leader degli Alice in chains, nel brano Nutshell. Tae-suk, protagonista maschile dell’opera, il cui nome non verrà mai pronunciato per tutto il film, non ha un posto da poter chiamare casa. Sopravvive giorno per giorno con semplicità quasi ascetica, e occupa le abitazioni di altre persone, quando queste sono in vacanza o via per lavoro. Il ragazzo riempie gli spazi lasciati vuoti dalla gente: si introduce nelle case, per trovare cibo, un riparo, un letto comodo. Viola lo spazio di altre persone, ma senza rubare nulla. Cerca di vivere le vite degli altri per trovarne una propria, puntualmente immortalata dalla macchina fotografica. Il ragazzo si sdebita dell’«ospitalità» aggiustando ciò che non funziona: una pistola giocattolo, un orologio, uno stereo, una bilancia. E così, gli oggetti guasti che finirebbero nel dimenticatoio, grazie a Tae-suk, riprendono vita. Come riprende vita Sun-hwa, maltrattata da un marito possessivo e rinchiusa con il suo carnefice nel posto che invece dovrebbe farla sentire più al sicuro. La donna fugge con Tae-suk e trova rifugio in quelle case di altri che diventano i luoghi del loro amore. Un legame fortissimo, etereo, incorporeo per gran parte del film. Due piedi che si sfiorano hanno la stessa forza di un bacio appassionato, perché i due amanti sono ombre che lasciano tracce leggere della loro presenza. Tae-suk, con la stessa cura con cui ripara uno stereo, aggiusta il cuore rotto di Sun-hwa. Quei posti da poter chiamare casa, o in cui sentirsi al sicuro, alla fine non sono luoghi, ma persone.

Storie di fantasmi

Il ferro 3 del titolo è la mazza da golf meno utilizzata nel gioco. Ed è l’oggetto che rende più «terrestre» Tae-suk, creando una sorta di legame con la realtà. Uno strumento destinato a prendere polvere - in quanto poco utilizzato nel golf - come una casa vuota o un orologio rotto, diventa il mezzo per fermare le violenze inflitte a Sun-hwa dal marito, diventa l’arma per punirlo, ma anche il passatempo per ingannare l’attesa prima di trovare un’abitazione in cui passare la notte. Anche la mazza, come il protagonista, si trasformerà in un fantasma. Emblematica in tal senso è la scena in cui Tae-suk, rinchiuso in prigione, finge di giocare a golf, con un ferro 3 invisibile tra le mani. Tae-suk potrebbe essere muto, non è dato saperlo, non proferisce parola neanche durante l’interrogatorio della polizia, che lo accusa di fatti gravissimi. E proprio in carcere il personaggio raggiunge il suo stato «ectoplasmatico», che lo rende capace di non produrre rumori e di nascondersi dove non c’è alcun posto per farlo. L’unico modo per stare con Sun-hwa è diventare letteralmente l’ombra di suo marito, che rappresenta a tutti gli effetti una barriera, tutt’altro che impenetrabile, per il loro amore fatto di antimateria. Un amore leggerissimo, volatile, nascosto sotto la luce del sole. Due corpi che danzano nell’aria, per sfiorarsi. Due corpi che sulla bilancia non pesano niente.

Scene memorabili

Prove tecniche per diventare un’ombra

Tae-suk tra le quattro mura di una piccola cella, si allena per rendere i suoi movimenti aggraziati, i suoi passi silenziosi. Si nasconde dove non è possibile farlo, dietro al secondino, copiando i suoi movimenti. Tae-suk, si allena a diventare un ombra. Un fantasma.

L’amore non pesa niente

Sun-hwa ormai è l’unica che sa dell’esistenza di Tae-suk. La ragazza camminando all’indietro riesce ad «intrappolarlo». So lei sa come farlo. Le loro ombre si fondono. I loro corpi si ritrovano su una bilancia. Si baciano. Non pesano niente.

Citazioni

Didascalia finale: «Non è dato sapere se il mondo in cui viviamo è sogno o realtà»

Voto: 9/10