Lontani dalla propria casa e sempre in cerca d’identità
Toni Ricciardi insegna Storia delle migrazioni all’Università di Ginevra e, da due anni, è anche deputato al Parlamento italiano, eletto nel collegio estero europeo. A Locarno, quest’anno, è presente nella veste particolare di co-protagonista del film di Samir La prodigiosa trasformazione della classe operaia in stranieri, nel quale interpreta sé stesso raccontando la sua storia di figlio di emigrati italiani nella Confederazione (qui la recensione).
«Credo che sia un film da vedere - dice Ricciardi al Corriere del Ticino - perché racconta un pezzo autentico, reale di vita della working class, e perché dà voce a molti protagonisti diretti: sindacalisti, ricercatori, giornalisti».
Dall’opera di Samir, dice ancora Ricciardi, emerge in modo chiaro in che modo «la classe operaia, soprattutto quella italiana, abbia contribuito al benessere e alla spinta economica della Svizzera, uno dei Paesi che nel secondo dopoguerra ebbe una crescita di PIL maggiore rispetto al consesso europeo. In parte, per ovvie ragioni geopolitiche, avendo un impianto industriale intatto e non colpito dal conflitto mondiale. E in parte perché riuscì a ritardare la propria rimodulazione industriale fino alla metà degli anni ’70, quando anche qui iniziarono ad arrivare le avvisaglie della crisi petrolifera».
Non furono «le proposte di James Schwarzenbach - dice ancora Ricciardi - a espellere forza lavoro dal Paese. Oltre 200 mila persone fecero rientro a casa, in Italia, perché il loro progetto migratorio, durato tra 10 e 20 anni, era ormai esaurito. Così, alle porte degli anni ’90, anche il Ticino iniziò a vivere una fase di passaggio tra il “non più” e il “non ancora”. Qualcosa che persiste tuttora, in un territorio alla ricerca di una propria identità economica e industriale».
Un tema ricorrente
Ma l’opera di Samir è soprattutto cinema. Forma narrativa che ha alle spalle una lunghissima tradizione in tema di migrazione. «Sul versante italiano - dice Ricciardi - l’emigrazione ha fatto parte costantemente del messaggio del cinema nazional-popolare, sin dal periodo del neorealismo. I titoli sono moltissimi: per tutti ricordo Emigrantes (1949) di Aldo Fabrizi, Napoletani a Milano (1953) di Eduardo De Filippo, Un americano a Roma (1954), di Steno, in cui si racconta anche la nascente società dei consumi e, prima ancora, Il cammino della speranza (1950), di Pietro Germi, che narra la fuga dalla Sicilia verso la Francia e anche la clandestinità migratoria. Per arrivare poi, nel 1974, a Pane e cioccolata, di Franco Brusati».
Un elemento costante, lo definisce Ricciardi, «perché nel racconto dell’immediato secondo dopoguerra, con il neorealismo, viene narrata la provincia italiana, luogo in cui la figura dell’emigrazione è sempre presente. La cesura, dal punto di vista cinematografico, avviene negli anni ’60. Direi, simbolicamente, con il bagno di Anita Ekberg nella fontana di Trevi. Federico Fellini cambia il canovaccio narrativo, l’Italia comincia a raccontarsi come il Paese della dolce vita, del boom economico. Anche se, in quegli stessi anni, Lina Wertmüller esordisce con I basilischi (1963), concentrandosi sull’emigrazione meridionale». In realtà, aggiunge lo storico dell’Università di Ginevra, «l’emigrazione ha continuato a essere una costante della cinematografia italiana. Fino al Nuovomondo (2006) di Emanuele Crialese o ad Azzurro (2000) di Denis Rabaglia, con Paolo Villaggio, la storia di un nonno che ritorna in Svizzera sulle orme del proprio vissuto e dei propri trascorsi di vita. Sul versante elvetico, invece, ricordiamo Siamo italiani (1964) diretto da Alexander J. Seiler, uno dei primi documentari in cui si parla soprattutto della clandestinità dei minori. E tutto il filone del cineclub delle colonie libere con Alvaro Bizzarri e i suoi indimenticabili Il treno del Sud (1970), Lo Stagionale (1973), Il rovescio della medaglia (1974), Pagine di vita dell’emigrazione (1977), pellicole considerate forse a torto più di nicchia rispetto ad altre».
L’ultima considerazione di Ricciardi è sul valore identitario del tema emigrazione: «L’Italia post-repubblicana non poteva narrare il proprio passato fascista, molto ingombrante, e quindi lo ricostruiva nei campanili, nei piccoli paesi della provincia, dove l’emigrazione era un dato costante. Per chi viveva lontano, rivedersi nella cameriera veneta, nei pescatori di Mazara del Vallo o nei napoletani disoccupati di Eduardo in cerca di lavoro a Milano era forse uno stereotipo, ma anche un modo di riconoscere sé stessi e la propria storia».