La recensione

L'uomo che creò la bomba sapendo di cambiare il mondo

Con «Oppenheimer» Christopher Nolan racconta l'esaltante e tragica parabola del padre dell'atomica americana – Un film girato e interpretato magistralmente, narrato in modo non lineare e che per tre ore incolla lo spettatore allo schermo
© UNIVERSAL PICTURES
Antonio Mariotti
25.08.2023 06:00

Il 53.enne Christopher Nolan cita tra i suoi cineasti preferiti Stanley Kubrick, Orson Welles e Terrence Malick. E le impronte di questi tre mostri sacri sono ben visibili nel suo ultimo film. In Oppernheimer si ritrova così la visionarietà di Kubrick, in particolare nelle sequenze astratte, realizzate senza far uso della computer graphic. È ben presente la sfrontatezza di Welles nel voler affrontare personaggi e storie «mostruosamente» grandi senza lasciarne in ombra nemmeno un dettaglio. E si nota pure l’influenza di Malick, soprattutto nelle complesse, ma quasi sempre fluide, dinamiche di un montaggio che per tre ore ci tiene incollati al grande schermo senza un attimo di respiro. Ma Oppenheimer è anche e soprattutto un film di Christopher Nolan, forse il più riuscito (anche se non il più personale) della sua ultraventennale carriera. Nolan gira come sempre in pellicola e l’eccezionale Imax 70 mm permette al direttore della fotografia Hoyte Van Hoytema di sfoggiare un’infinita gamma di tonalità tra il colore e il bianco e nero. Oppenheimer va quindi gustato sullo schermo più grande possibile per non perdere nemmeno una sfumatura del carosello di immagini (e di musica e di suoni) che trasporta lo spettatore in un universo narrativo dove si giocano nel medesimo tempo il destino del mondo e quello del protagonista. Quest’ultimo è magnificamente interpretato dall’irlandese Cillian Murphy. E a proposito di attrici e attori, è meglio chiarire subito che tutti si dimostrano all’altezza della situazione: da Emily Blunt, nei panni della moglie di Oppenheimer, a Matt Damon, da Robert Downey Jr. a chi è chiamato a fare solo un breve cameo, come Kenneth Branagh, Rami Malek o Casey Affleck.

Genio e fragilità

Al di là del montaggio ben poco lineare, Christopher Nolan in quello che è il suo primo biopic (ispirato al libro di Kai Bird e Martin Sherwin, Premio Pulitzer nel 2005), non lesina certo le informazioni su colui che è considerato il «padre» della bomba atomica. Conosciamo J. Robert Oppenheimer poco più che ventenne, nel 1926, promettente fisico che studia a Cambridge, inadatto al laboratorio, votato alla teoria e grande ammiratore del premio Nobel Niels Bohr che lo incoraggia a proseguire il suo cammino. Oppenheimer, da subito, appare geniale ma non perfetto. Tutta la sua esistenza sarà caratterizzata da momenti di esaltazione in cui saprà mettere a frutto le sue doti di scienziato ma anche quelle di carismatico «aggregatore» di cervelli. A ciò si contrappongono inattesi passi falsi e un atteggiamento sfuggente che ne fanno intuire la fragilità psicologica. Sull’onda di una fama e un’autorevolezza crescenti – e nonostante le sue aperte simpatie per la causa comunista – nel 1942 Oppenheimer viene «arruolato» per guidare il Progetto Manhattan e diventa «sindaco e sceriffo» della base segreta di Los Alamos, in pieno deserto del New Mexico, dove affluiranno centinaia di scienziati con le loro famiglie. Scopo dell’operazione: costruire la bomba atomica americana prima di quella tedesca. Una folle corsa contro il tempo, resa possibile da un’irripetibile serie di circostanze concomitanti, che culmina, il 16 luglio 1945 quando il nazismo è già sconfitto, nel cosiddetto Trinity Test: primo test nucleare mai tentato.

Maestoso e terrificante

Oppenheimer è cosciente che quell’esplosione maestosa e terrificante cambierà per sempre il mondo e Nolan non fa che amplificare questa sensazione con una lunga sequenza che costituisce il clou assoluto del film. La scienza ha vinto, l’umanità ha perso. Oppenheimer festeggia insieme agli altri ma è terrorizzato dai suoi atti: Prometeo ha perso il controllo del fuoco che aveva sottratto agli dèi e si è trasformato in artefice della morte nucleare. Cercherà di lottare contro questa maledizione usando la forza della ragione ma invano. In epoca di Guerra fredda e maccartismo. Oppenheimer ama ancora l’America nonostante tutto, ma l’America che conta non ha più bisogno di lui. Nel 1954 gli viene tolto l’accesso a qualsiasi documento top secret. E se nel 1958, sarà almeno parzialmente riabilitato, la sua figura rimarrà marginale. E così l’ultimo terzo del film risulta il meno movimentato ma anche il più tragicamente umano.

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