Marco Solari: «Non verrò al Festival del 2024»
Gli ultimi giorni del Festival sono sempre molto intensi, per non dire convulsi, per il presidente e per tutto lo staff della manifestazione. Ma quest’anno per Marco Solari lo sono ancora più del solito. Come mi dice accogliendomi con la consueta gentilezza e disponibilità nel suo ufficio al Palacinema, si ritrova infatti a fare per l’ultima volta tutta una serie di cose. E anche quella che segue, quindi, sarà l’ultima intervista concessami in veste di presidente da colui che ha guidato per 23 anni la sempre più complessa macchina della rassegna ticinese. Vediamo come è andata.
Alain Berset ha già svelato che, alla fine del suo mandato come consigliere federale, tornerà a Locarno da spettatore. Lei che futuro rapporto con il Festival si immagina? Dove sarà nella prima metà d’agosto del 2024?
«Nella mia risposta c’è una certezza e un’insicurezza. La certezza è che l’anno prossimo non sarò presente al Festival. È una questione di stile: sarebbe indelicato esserci con una nuova presidenza che inizia. Quel che non so ancora è cosa farò a partire dal 2025. Il Festival per me è come una famiglia, se avrò sufficiente distanza emotiva verrò, se non riuscirò a superare bene questo distacco forse per me sarà meglio non esserci».
Rispetto al futuro del Festival qual è la sua maggiore certezza oggi e la maggiore incertezza?
«Ho difficoltà a parlare del futuro del Festival: i miei possono solo essere degli auspici, nient’altro. La certezza è che alla mia successione è stata chiamata una persona che ama profondamente la cultura, conosce il cinema e difende a spada tratta i valori che il Festival di Locarno ha sempre difeso. L’auspicio quindi è che chi mi succederà possa mettere in campo al meglio tutto ciò che ha dentro di sé e quindi, per citare un giornalista americano, penso che il futuro del Festival del Film sarà “bright”, cioè luminoso».
Nessuna incertezza dunque?
«No, non ne ho. Grazie a Mario Timbal e alla sua commissione cerca, abbiamo presentato la migliore soluzione che si poteva presentare. Non ne vedo di migliori. Incertezze non ne vedo se non nella situazione mondiale, ma quella sfugge al nostro controllo.
Quest’anno, anche se le cifre definitive non sono ancora note, si ha l’impressione che il pubblico sia tornato in forze al Festival».
Un segnale importante dopo il brutto periodo della pandemia?
«Sì, si parla di un dieci percento di affluenza in più rispetto allo scorso anno, nonostante le due serate di pioggia a inizio a Festival. Quella che è tornata soprattutto, ed era palpabile, è la gioia di vivere, di provare emozioni. È tornato il Festival come l’ho sempre visto, sognato e per fortuna si è girato pagina rispetto a quel periodo così cupo, così lugubre, con la Piazza Grande vuota nel 2020. Qualcosa di atroce. Se chiudo gli occhi mi prende ancora l’angoscia e neppure nel 2021 la situazione era quella che avrebbe dovuto essere».
Negli ultimi due decenni il Festival ha cambiato volto anche a livello di infrastrutture. Quale rimane il suo maggior problema da questo punto di vista?
«Se c’è un problema, uno, questo si chiama FEVI. A tutto il resto si può supplire con le sale che esistono, dal Rialto al Gran Rex, dal Palacinema al Kursaal, ma il FEVI rimane un problema e doppio per giunta. Così com’è non può più andare avanti e in più sarebbe impossibile per il Festival organizzare un’edizione senza FEVI o senza una sala equivalente che possa ospitare fino a 3.000 spettatori. La risposta a questo problema devono trovarla gli architetti ideando una struttura provvisoria, sicuramente molto cara ma indispensabile, da utilizzare durante i lavori di ricostruzione del FEVI».
Quali sono stati i momenti più difficili dei suoi anni di presidenza?
«Tre, senza dubbio. La presentazione in concorso del film L.A. Zombie (2010: ndr) perché non è stato capito che si trattava di una provocazione, di un film che toccava un problema profondo riguardo ai film splatter con i quali crescono milioni di giovani americani nei sobborghi delle grandi città, che per noi sono un inferno inimmaginabile e sono il terreno di caccia dell’esercito per reclutare militi pronti a tutto. La sua provocazione non era seria, quasi ridicola ma necessaria, e ha provocato una delle discussioni più intense a cui abbia assistito dopo una proiezione a Locarno. Mi è dispiaciuto che da ciò sia nata una polemica che è diventata anche cattiva. Il secondo momento difficile è stato nel 2014, quando Roman Polanski è stato invitato al Festival per ritirare un Pardo speciale alla carriera. A un certo punto il regista ha dovuto rinunciare perché contro di lui erano stati eretti muri di cemento. Io sono sempre dalla parte dell’apertura, della libertà di parola e per me Polanski è un uomo libero perché così hanno deciso le autorità politiche e giudiziarie in Francia e in Svizzera. Per essere coerenti lo si poteva dunque invitare anche a un festival, poi sul perché la giustizia americana segua altre logiche non spetta a me giudicare».
In quel caso lei ha ammesso di aver sottovalutato la reazione emotiva dell’opinione pubblica…
«Sì e ho sottovalutato anche l’impossibilità di dialogare. Pensavo che il dialogo fosse possibile ma alla fine mi sono reso conto che non era così».
E il terzo momento difficile?
«Quello è stato il tipico caso per un presidente per cui può scoppiare una mina vagante senza che lui se ne accorga: parlo della presenza al Festival del terrorista non pentito delle Brigate rosse Giovanni Senzani (nel 2013, tra i protagonisti del documentario Sangue di Pippo Del bono: ndr.). Che Senzani fosse presente nel film è un fatto che riguarda essenzialmente il regista, ma averlo ospite al Festival non era opportuno. Solo che noi non sapevamo della sua presenza perché gli inviti sono stati gestiti alla casa di produzione. Ci sono poi stati gli articoli sulla stampa italiana dell’ex magistrato Giancarlo Caselli, secondo cui ci stavamo facendo una pubblicità gratuita grazie a un macellaio. E si trattava di un’accusa gravissima vista l’autorevolezza del personaggio. Mi ricordo una lunga e durissima telefonata con lui alla fine della quale mi ha detto: “Solari mi creda, ho condotto questa telefonata come un interrogatorio e dai suoi argomenti, dalla sua voce e dalla mia esperienza, so che lei ha detto la verità. La questione è chiusa”. E da quel giorno non è più apparso un articolo sull’argomento».
Lei ha sempre rispettato la libertà dei suoi direttori artistici tranne una volta: qual è stata?
«Ora posso dirlo: si è trattato del film Submission di Theo van Gogh (2004: ndr) nel quale sul corpo di una donna nuda sono stati iscritti, per pura provocazione, dei versetti del Corano. In nome della libertà, la direttrice artistica Irene Bignardi avrebbe voluto presentare questo film in Piazza Grande. Io mi sono opposto, ma lei insisteva. In quel momento è arrivata una telefonata dal Ministero pubblico della Confederazione che è stato molto chiaro: “O lo proibite voi o lo proibiamo noi”. E allora Irene ha cambiato idea trovando che il film non avesse le qualità artistiche sufficienti per essere selezionato al Festival».
E il momento più bello?
«Il momento più bello è l’ultimo minuto dell’ultimo giorno di ogni edizione del Festival. Anche in questi giorni sono teso come un arco di violino perché tutto può ancora succedere in ogni momento. Il momento più bello legato al Festival rimane la proiezione del film La notte di San Lorenzo in Piazza Grande (10 agosto 1962: ndr.) o i film di Daniel Schmid come Il bacio di Tosca o Beresina. Ricordi di quando non ero ancora presidente e potevo permettermi di seguire i film in Piazza».
Il personaggio più interessante che le è capitato di incontrare al Festival?
«La lista è molto lunga. Potrei citare Harry Belafonte, Susan Sarandon, Adrien Brody, Michael Cimino, che non ho capito del tutto, ma era comunque intrigante, Claudia Cardinale, Armin Müller-Stahl, Michel Piccoli, Isabelle Huppert, dapprima malmostosa, poi non voleva più andar via. Ma la personalità che mi ha colpito di più è stato Dario Fo: come ha saputo ipnotizzare la Piazza, conquistarla con la sua presenza e il grammelot».
Presidente, stasera sarà lei a scegliere l’ultimo film della 76. edizione. In un’intervista di qualche anno fa aveva affermato che il suo film preferito era Quarto Potere di Orson Welles. Sarà questo il film che vedremo? L’ultima domanda rimane senza risposta. Il segreto resterà tale fino a questa sera, ma conoscendo l’amore per la cultura e il gusto di Marco Solari si può star certi che si tratterà di una scelta di qualità. Avendo passato oltre un ventennio al fianco di direttori artistici che – ciascuno in modo diverso – hanno interpretato lo «spirito di Locarno», siamo certi che questo spirito trionferà anche stasera sullo schermo di Piazza Grande.