Film Festival

«Se potessi premierei tutti i film in concorso»

Intervista alla regista e sceneggiatrice indiana Payal Kapadia, parte della giuria del Concorso internazionale di Locarno77, con alle spalle due prestigiosi premi al Festival di Cannes: quello per il miglior documentario e il Gran Premio della Giuria
©Valentina Claret (Reuters)
Antonio Mariotti
14.08.2024 06:00

Non ha ancora quarant’anni ma è di certo uno dei nomi emergenti del panorama cinematografico mondiale. La regista e sceneggiatrice indiana Payal Kapadia, nata e tuttora residente a Mumbai, fa parte della giuria del Concorso internazionale di Locarno 77 e ha alle spalle due prestigiosi premi al Festival di Cannes: quello per il miglior documentario (ottenuto nel 2021) e il Gran Premio della Giuria vinto nel maggio scorso con il suo primo lungometraggio di fiction All We Imagine as Light. 

Che cosa rappresentano i festival cinematografici nel suo percorso artistico?
«I festival mi piacciono soprattutto perché si fanno incontri importanti. In effetti ho incontrato la produttrice con la quale lavoro da sei anni a questa parte al Festival di Berlino dove avevo presentato un corto. È stato molto strano, perché non ci conoscevamo per nulla ma adesso siamo di famiglia e lavoriamo insieme in piena sintonia anche se lei è francese e io indiana: le nostre vite hanno poco in comune tranne la passione per il cinema».

Come si sente nel ruolo di membro della giuria di un festival come quello di Locarno?
«Sento una grande responsabilità, ma d’altra parte ci sono tanti film interessanti in concorso e credo che all’interno della giuria ci saranno discussioni molto interessanti. La giuria stessa è composta da persone molto interessanti: è un gruppo che mi piace molto e che va molto d’accordo. Come cineasta, inoltre, mi chiedo sempre cosa può pensare una giuria dei miei film e quindi questa esperienza mi aiuta a capire come vengano prese certe decisioni. La difficoltà sta nel fatto che ti piace un film per una cosa, un altro film per un’altra e via dicendo. Il problema è che si possono assegnare solo quattro o cinque premi mentre a me piacerebbe premiare tutti o perlomeno più di quelli che ci è concesso perché fare un film è qualcosa di molto difficile».

Quest’anno a Cannes il suo lungometraggio All We Imagine as Light è stato il primo film indiano in concorso da 30 anni a questa parte: noi europei non diamo sufficiente importanza alla numerosissima produzione del suo Paese?
«È molto strano, perché in India non esiste solo Bollywood, ma abbiamo delle cinematografie molto diverse nelle varie regioni del Paese e ci sono moltissimi registi che, come me, lavorano in maniera indipendente. Credo però che le cose stiano cambiando e che in futuro vedremo sempre più spesso delle produzioni indiane anche ai festival più importanti»

Al contrario, in India è facile vedere film europei?
«No, molto difficile. I film europei non vengono distribuiti in sala, ad eccezione di qualche produzione hollywoodiana. Oggi si trova qualche titolo specialmente su Netflix o su Mubi».

Lei è figlia di una videoartista: questo fatto ha influito sulla sua scelta di diventare regista?
«Penso di sì, anche perché mia madre lavorava spesso da sola, in cucina, per montare i suoi lavori su delle cassette VHS. Non aveva a disposizione grandi budget e quindi passava molte ore a lavorare sui suoi video. Io ero una bambina, le gironzolavo attorno e penso di aver assorbito una certa idea dell’artigianato di qualità, dell’importanza di fare i film in casa, che è ancora importante oggi per me».

Venendo al suo film All We Imagine as Light, che a Cannes ha ottenuto il Gran Premio della Giuria, sarebbe stato possibile realizzarlo senza la sua produttrice francese?
«No, la partecipazione francese è stata essenziale perché in India non esistono aiuti per i film indipendenti. Esisteva un fondo d’aiuto nazionale, ma veniva spartito tra due film e così agli altri non rimaneva nulla. Quindi senza aiuti esterni è davvero dura produrre film».

Le protagoniste del suo film sono tre donne di tre generazioni diverse, ma la quarta protagonista, anche grazie a delle immagini molto suggestive girate durante la stagione dei monsoni, si può dire sia la città di Mumbai?
«Sì, anche perché attraverso uno dei tre personaggi ho cercato di esprimere uno dei problemi di questa immensa città, ovvero la gentrification di interi quartieri che fa sì che i meno abbienti non possano più permettersi di vivere nell’agglomerazione principale e debbano trasferirsi più lontano accollandosi dei tragitti in treno molto lunghi. Mumbai è una città dove la vita è molto dura, ma è anche vantaggiosa per certi versi perché le paghe sono più alte che altrove e quindi continua ad attirare molta gente».

La solidarietà tra le tre protagoniste del suo film è molto importante: è una situazione comune nella società indiana?
«Non proprio, perché all’identità di genere si sovrappongono quella delle caste e quella delle religioni. Quindi la solidarietà femminile non è scontata. Nel mio mondo ideale bisognerebbe superare tutto ciò in modo che le donne possano sostenersi l’una l’altra, ma nella nostra società spesso le donne sono confrontate con il modello opposto, ovvero quello dell’ostilità e della gelosia che viene veicolato dagli show delle grandi reti televisive. Ci vorrà del tempo per cambiare tutto ciò, così come la dimensione patriarcale della nostra società».

E Mumbai è anche il cuore di Bollywood: ha contatti con questo mondo molto lontano dal suo cinema?
«In effetti a Mumbai convivono diverse industrie cinematografiche: anche quella della pubblicità è molto importante. Quindi c’è molto lavoro per i tecnici che magari il giorno prima lavorano su una grande produzione di Bollywood e il giorno dopo vengono a lavorare sul mio piccolo film spesso per pura passione ma comunque con un salario molto più basso. È questo il punto di contatto fra i due mondi, mentre con gli attori purtroppo non funziona così, nemmeno con Shah Ruckh Khan (ride, ndr)».

All We Imagine as Light sarà prossimamente distribuito nelle sale svizzere e anche in quelle indiane, il che non era per nulla scontato, come afferma con sollievo Payal Kapadia.