Cinema

«Spero che il Sundance apra molte porte al mio film»

Intervista alla regista ticinese Klaudia Reynicke, il cui nuovo lungometraggio Reinas è stato selezionato per l'edizione 2024 del Festival che si inaugura domani a Park City, nello Utah
© ALVAFILM
Antonio Mariotti
17.01.2024 06:00

Per una cineasta indipendente statunitense non è facile vedere il proprio film selezionato al Sundance Festival. Un’impresa ancora più ardua per una produzione extra USA, poiché la rassegna dedica un’unica sezione a queste opere. Per l’edizione 2024, che si inaugura domani a Park City (nello Utah), l’exploit è riuscito a una regista ticinese, Klaudia Reynicke, con il suo nuovo lungometraggio Reinas. Ecco cosa ci ha raccontato in proposito.

Come ha saputo la grande notizia?
«Una mattina di circa un mese fa mi sono svegliata molto presto, vado in cucina e sul cellulare vedo una serie di messaggi dagli Stati Uniti da parte di persone che non conosco. Erano i curatori del Sundance che cercavano di contattarmi per dirmi che il mio film era stato preso, anche se lo avevamo inviato solo qualche giorno prima, con molto ritardo rispetto alla data di iscrizione e solo grazie all’interessamento di Swiss Films. A quel punto ho chiamato subito, anche se a Los Angeles doveva essere l’una del mattino, e così ho avuto la conferma che Reinas era stato selezionato tra i dieci titoli non americani della sezione World Cinema Dramatic Competition. A quel punto ho dato l’annuncio ai produttori e alla mia montatrice Paola Freddi con la quale ho lavorato a lungo per questo progetto».

L’America è una delle sue patrie dove ha vissuto diversi anni e ha studiato all’Università della Florida, dove vive una parte consistente della sua famiglia: è quindi un’emozione ancora più forte essere stata selezionata per quello che viene considerato il più importante festival americano per il cinema indipendente?
«È qualcosa di molto importante per me, poiché prima di fare cinema, quando studiavo antropologia in Florida, andavo in biblioteca a prendere in prestito dei Dvd e prima di sceglierli cercavo se sulle confezioni ci fosse il logo del Sundance, perché sapevo che era una garanzia di qualità. Non ci sono mai andata ma si può paragonare al Cannes degli Stati Uniti, è sempre presente nelle discussioni e andarci con un mio film è veramente un sogno. Ci sarà tutta la mia famiglia americana, tranne mia madre che verrà a Lugano per occuparsi dei miei figli durante la mia assenza. Per un progetto come Reinas, tutto girato in Perù, spero che un festival come il Sundance aprirà tante porte».

Fin dal suo documentario ¿Asi son los hombres? del 2013, l’aspetto autobiografico è molto presente nei suoi film. Reinas mi sembra il suo progetto di fiction più direttamente autobiografico: come mai ci è arrivata soltanto ora?
«Ora che sono diventata madre, che mi sento più matura, ho sentito l’esigenza di ritrovare le mie radici peruviane. Io il Perù non lo conoscevo veramente più, visto che l’ho lasciato quando ero bambina e poi ci sono tornata solo un paio di volte come turista. Dietro questo progetto c’era la mia voglia di ricreare una relazione con il mio Paese natale ma anche con la sua gente. È vero che il film è molto legato alla mia storia personale, anche se non la racconta. È però vero che a un certo punto io, mia madre e il mio patrigno siamo partiti dal Perù quando avevo 10 anni per trovare qualcosa di meglio all’estero perché la situazione era molto difficile, caotica, basti pensare ai black out che si susseguivano a Lima, ma che io da bambina non ho risentito quasi per nulla. Tutti questi aspetti mi hanno quindi portato ad immaginare la storia di una famiglia che c’era e che non c’è più e che si ritrova prima di una partenza in un contesto che in un certo senso la favorisce ma anche la ostacola. Tanto che alla fine non si saprà se questa partenza della madre con le due figlie ragazzine avverrà o meno».

Praticamente come si è svolta la preparazione del film?
«Nel settembre del 2022, dopo la decisione positiva dell’Ufficio federale della cultura - per nulla scontata per un progetto parlato in spagnolo e tutto girato in Perù -, abbiamo avuto la certezza che il film si sarebbe potuto fare. Siamo allora partiti subito per Lima per confermare il cast e i luoghi scelti per le riprese. Per me si è trattato di un momento di acclimatazione mentale complicato, perché era la prima volta che tornavo in Perù da oltre dieci anni. Non è stato un momento facile: mi chiedevo se avessi fatto la scelta giusta. Quello che mi ha aiutato di più in quel momento è stato cercare le case dove girare. Ne abbiamo visitate tantissime, abitate da famiglie come la mia. È stato un po’ come tornare bambina quando andavo a trovare gli zii. Questo mi ha fatto rientrare nella realtà peruviana in un modo privilegiato. Sono quindi tornata a Lugano sentendomi più forte e siamo ripartiti per girare il film esattamente un anno fa, nel gennaio del 2023». 

E com’è andata sul set?
«Questo è solo il mio terzo film per il cinema e quindi c’è sempre qualcosa da imparare. In questo caso si tratta di una coproduzione maggioritaria svizzera con il Perù e la Spagna, quindi sul set c’erano persone di questi tre Paesi e questo è stato un aspetto molto positivo, anche se in quel periodo in Perù c’erano molti problemi, di tipo politico che hanno portato a grandi proteste popolari molto violente, con morti e feriti. E noi lì in mezzo a cercare di giare un film! Con grandi incertezze e grandi preoccupazioni su dove e quando poter girare. Credo che questa situazione molto particolare abbia rinforzato il nostro piccolo gruppo: eravamo davvero uniti».

Il film si svolge nel 1992: l’ambientazione storica vi ha creato particolari problemi?
«È stato molto impegnativo. Ogni volta che si scrive un film è una bellissima idea ambientarlo nel passato ma poi il discorso è diverso quando si tratta di girarlo. Bisogna immaginare una città come Lima, con 10 milioni di abitanti, dove tu devi bloccare il traffico in una strada per piazzare le auto del 1992. Una cosa impossibile, anche perché c’è chi semplicemente non rispetta il blocco, anche se c’è la polizia che devia il traffico. Alla fine però ce l’abbiamo fatta».

Come ha proceduto per trovare le due giovani protagoniste, Lucia e Aurora?
«Dopo aver visionato molti video di casting, alla fine ho trovato le mie due protagoniste in modo piuttosto casuale. La piccola Lucia (Abril Gjurinovic: n.d.r.) è stat trovata da un casting manager in un centro commerciale insieme al suo papà. Mi hanno inviato un video e l’ho subito trovata eccezionale, perfetta per il ruolo. Poi ho scoperto che la sua storia è molto vicina a quella del film perché lei abita a Bruxelles insieme alla madre ed era a Lima in vacanza dal padre. Aurora invece non riuscivamo proprio a trovarla, finché un giorno, durante un collegamento via zoom con il coproduttore peruviano Daniel Vega, vedo passare dietro di lui sua figlia quattordicenne Luana e gli chiedo se lei non volesse fare il casting. Daniel allora mi ha spiegato che visto che tutta la famiglia lavora nel cinema, Luana non voleva avere nulla a che fare con questo mondo. Poi però, anche grazie all’aiuto di una sua amica, siamo riusciti a convincerla e anche lei è perfetta nel suo ruolo».