Tsai Ming-Liang, la fertile rincorsa tra arte e cinema
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Il tema, importante quanto poco definibile, è quello del futuro del cinema e Kevin B. Lee, «Locarno Film Festival Professor for the Future of Cinema and the Audiovisual Arts at USI», che dell’argomento è luminare ha subito chiarito, in apertura di chiacchierata, il motivo per cui egli ritenga il cinema di Tsai Ming-Liang particolarmente attinente al tema. Per farlo ha citato la sua personale esperienza di anticipazione del tempo futuro esperita nella visione, di poco prepandemica, dell’ultimo film di Tsai Ming-Liang Days (in proiezione domenica 6 al GranRex alle 17.00) che faceva presagire l’inquietante sensazione dell’assenza di contatto fisico che di lì a poco sarebbe tragicamente diventata la comune realtà. In questo senso i film del regista taiwanese sono tutti delle «time capsule» che arrivano all’oggi – e arriveranno al domani – rammentandoci di visioni avverate.
Nell’incontro con Tsai Ming-Liang è emerso un presente – non ancora futuro – del cinema dal retrogusto un po’ amaro ma mitigato dalla speranza e dalla possibilità di espressione (più) libera che l’arte concede. È in questa terra di mezzo tra intrattenimento e arte incondizionata che si muove Liang; attitudine dovuta, come lui stesso dice, alla sua «pigrizia» come regista. «Girare un (buon) film» continua «è impegnativo e faticoso; è difficile avere sempre il controllo necessario a dirigere persone, gestire situazioni, ottenere ciò che si vuole. Inoltre, i miei interessi sono molteplici e l’arte, le opere che creo per musei ed esposizioni, sono una delle cose che mi interessano, come il cinema». È quindi sul confine tra arte visiva e cinema che si esplicita la creatività di Lang. Come ha lui stesso affermato «ho portato il museo nel cinema e il cinema nei musei» riferendosi da un lato alla sua poetica cinematografica lontana dal «chiasso» del mainstream, fatta di lentezza, riflessione, contemplazione – il suo paragone è con la meditazione buddista – ed al suo valore intrinsecamente artistico, mentre dall’altro si muove il suo côté prettamente legato ad installazioni audiovisive fatte per essere fruite in un contesto museale. Contesto che, pur nelle disparità di fruizione rispetto all’evento cinematografico – soprattutto, come sottolineato da Liang e Lee, nella temporalità esperienziale sostanzialmente differente – finisce per allinearsi quando l’opera d’arte arriva ad essere proiettata in un cinema. Come avverrà nel 2024 a Ginevra, con la proiezione delle sue Walking series – un’anticipazione priva di ulteriori dettagli, per ora.
Ed è qui che Liang va a parare quando, incalzato da Lee, si esprime sull’attualità della produzione cinematografica e sul ruolo dei festival in questo contesto: detto della commercialità, della scarsa consistenza artistica e della sostanziale ripetitività di trame, argomenti e idee nel cinema di larga diffusione, Liang considera i festival come isole da preservare, dove poter coltivare la sperimentazione e l’inaspettato. E qui si inserisce la sua osservazione riguardo alla recente nomina di Maya Hoffmann: «dovrà essere coraggiosa nel proporre». Proporre opere che in altri luoghi non saranno facilmente visibili, lavori che meritano di essere condivisi e che solo in un festival possono trovare visibilità. Sottolineando poi che le sue stesse opere hanno sovente ricoperto quello stesso ruolo lungo gli anni e i festival.