Locarno75

«Un viaggio geografico, ma anche psicologico»

Pur penalizzata dalla pioggia di domenica, la quasi sempre abituale «serata italiana» del Locarno Film Festival è stata seguita da un folto pubblico al Palexpo – Abbiamo incontrato il regista di Delta, Michele Vannucci, per capire soprattutto la genesi del suo film.
Antonio Mariotti
09.08.2022 06:00

Pur penalizzata dalla pioggia di domenica, la quasi sempre abituale «serata italiana» del Locarno Film Festival è stata seguita da un folto pubblico al Palexpo. Abbiamo incontrato il regista di Delta, Michele Vannucci, per capire soprattutto la genesi del suo film.

Questo film nasce da una sua lunga ricerca sulla vita delle persone che abitano lungo le rive del delta del Po. Da dove nasce questo interesse?

«È una regione che conosco bene. Io mi sento un figlio adottivo dell’Emilia. Ho vissuto a lungo a Bologna e a Bologna una parte consistente della popolazione non è bolognese ma gente che ha scelto questa città come casa. Mentre vivevo lì, ho letto quel libro meraviglioso che è Morimondo di Paolo Rumiz, il diario del suo viaggio in canoa dal Monviso fino al delta del Po. Nel libro si parla solo in maniera laterale del fenomeno dei «pirati del Po» e a Bologna arrivavano leggende legate al fiume che raccontavano di pescatori che pescavano con una batteria elettrica e i cavi, immettendo elettricità nel fiume e sterminando centinaia di pesci, soprattutto pesci siluro. È una storia che ho subito trovato di un fascino incredibile, perché in questo dettaglio ci vedo tutta la storia dell’Europa. Incontrando la gente del posto e i bracconieri ho infatti iniziato a capire che quello che è successo nel 2008, con l’entrata della Romania nell’UE, ha costretto delle popolazioni che vivevano nel delta del Danubio da 500 anni a trasferirsi altrove, perché la zona è entrata a far parte del Patrimonio mondiale dell’UNESCO. Si tratta di una comunità di Lipoveni, una minoranza religiosa russa, che lì aveva trovato rifugio, poiché i delta in generale sono da sempre territori in cui molti cercano di sfuggire a qualcuno. Quindi questa popolazione si è guardata intorno e si è sparsa – come dei veri e propri pionieri da Far West - lungo diversi fiumi d’Europa, un po’ come facevano gli indiani d’America con i bisonti. Alcuni sul Po, altri sulla Loira, altri nella parte austriaca del Danubio, altri ancora in Spagna. Mi sembra davvero un «racconto d’Europa» che narra come qualcosa che capita in una parte del mondo possa avere delle ripercussioni del tutto inattese in un’altra: un vero e proprio «Butterfly Effect». È vero che siamo europei ma non riusciamo ancora a dircelo. Quindi ho iniziato a seguire le guardie ittiche volontarie del delta per tre anni, conoscendo le comunità locali. E ciò mi ha permesso di iniziare a scrivere la sceneggiatura insieme a Massimo Gaudioso, Anita Otto e Massimo Natale». 

Come si è svolto questo passaggio?

«Come in tutti i miei film sono partito da interviste, da storie vere per poi staccarmi dall’aspetto cronachistico e raccontare qualcosa che mi stava a cuore, che mette paura, cioè i limiti della sopportazione della violenza: fino a quando è possibile non schierarsi rispetto a un evento che ci coinvolge? È un processo che in tutto è durato cinque anni: ho iniziato mentre stavo montando il mio primo film, Il più grande sogno, e ora eccoci qui a Locarno. Nel frattempo ci sono stati due anni di pandemia e anche la situazione sul delta del Po è completamente cambiata. Quindi il film Delta non è da prendere come un documentario, ma come un Cuore di tenebra italiano, un viaggio dentro le nostre pulsioni più oscure e la dimostrazione di come il paesaggio in cui vive può cambiare una persona anche dal punto di vista psicologico».

E in quest’ottica allora il personaggio di Elia, interpretato da Alessandro Borghi, è il colonnello Kurtz della situazione?

«Esattamente. Stando sul fiume ti rendi conto di come, trattandosi di un territorio molto vasto e abbandonato a se stesso, sia un luogo dove coesistono comunità molto aggregate, come ad esempio quella delle guardie ittiche volontarie, e persone che vivono dentro la natura e ne fanno un motivo di vita. Mi interessava quindi raccontare un personaggio, che vive a livello istintuale in simbiosi con la natura verso la quale ha anche un rapporto predatorio, contrapposto a qualcuno – come Osso, interpretato da Luigi Lo Cascio – che cerca di difendere la natura senza però riuscire a interpretarla, a conoscerla a fondo. Delta è un racconto western, proprio perché mette i personaggi a confronto con la loro vera natura. Si tratta di un viaggio che inizia nel Ferrarese e finisce al mare, è un viaggio geografico ma anche psicologico».

Ed è pure un viaggio linguistico tra i vari accenti e i modi di dire del fiume…

«In questo ambito lavoro sempre nello stesso modo: partendo dalle molte ore di interviste registrate e che mi servono poi per scrivere la sceneggiatura. Il personaggio di Elia è un rumeno che però parla anche in un dialetto vagamente veneto, mentre Osso ha un accento emiliano. In entrambi i casi siamo partiti dalle voci che ho registrato e poi ho restituito agli attori affinché potessero essere autentici. Il linguaggio è psicologia e quindi vivere dentro la lingua di un’altra persona significa appropriarsi di una serie di strumenti esistenziali che danno vita al personaggio stesso».

Delta è stato girato d’inverno in una regione ostica dal punto di vista naturalistico: come si sono svolte le riprese?

«Ho sempre pensato che fosse un film invernale, proprio perché questa distanza – questo delta – che abbiamo dentro, tra le nostre vite e la natura, d’inverno si allarga ancora di più. Trattandosi di un film d’azione, con scene d’inseguimento, di caccia all’uomo dentro la natura selvaggia, è stato faticosissimo girarlo e ce l’abbiamo fatta solo grazie a una conoscenza dei luoghi molto approfondita, che ci ha permesso di capire quando e cosa poter girare lì e non altrove. E il tutto naturalmente pensando sempre alle possibilità da offrire agli attori per il loro lavoro».

Praticamente ha iniziato a lavorare fin dal suo cortometraggio di diploma, con Alessandro Borghi: come è evoluto il suo rapporto con lui?

«Mi ritengo fortunato di aver trovato un alter ego cinematografico, poiché non è facile creare un rapporto creativo ultra decennale con una persona. Ciò ti permette di creare delle opere complesse poiché sono il frutto non solo del tempo passato insieme sul set ma di giorni, di mesi – in questo caso addirittura di anni – di condivisione di idee legate al progetto comune».

In questo articolo: