«Zamora racconta di un senso di inadeguatezza universale»
Con Zamora (2024), dopo una lunga carriera come attore, Neri Marcorè debutta alla regia firmando una pellicola che si ispira all’omonimo romanzo d’esordio (uscito nel 2002) di Roberto Perrone, scomparso poco prima di poter vedere il film. Ospite della 37. edizione di Castellinaria, l’attore e regista italiano accompagnerà questa sera alle 20.30, la proiezione del film al Mercato coperto di Giubiasco, gli abbiamo chiesto di raccontarcelo.
Zamora segna il suo debutto alla regia, com’è nata l’idea di questo film?
«Il romanzo di Perrone avrebbe potuto diventare un film già vent’anni fa, mi avevano chiesto di esserne il protagonista, ma poi il progetto è stato interrotto. Non ho mai smesso di pensare a questa storia, così ho cercato un produttore con l’idea di metterla in scena. Quando sono andato da Agostino Saccà per proporglielo è stato lui a chiedermi di fare la regia. E così, inaspettatamente, è stato. Ma era qualcosa a cui pensavo da tempo, mi piace fare cose diverse, è nella variazione che trovo la mia dimensione».
Nel film lei interpreta però un altro ruolo, quello di Giorgio Cavazzoni, che non è quello del protagonista.
«Ho fatto questa scelta perché volevo concentrarmi sulla regia e un po’ perché non volevo fare l’asso piglia tutto, inoltre nel romanzo il protagonista è un trentenne. È vero che tutto si può cambiare, ma ho preferito mantenere la storia così com’era, chiaramente con qualche variazione, anche se l’ossatura è la stessa. Interpretare il personaggio di Giorgio mi è venuto piuttosto naturale dal momento in cui l’ho visto prendere vita nella sceneggiatura. È il ruolo di un mentore, è un uomo caduto in disgrazia per scelte sbagliate nella vita. All’inizio del film si trova in un momento di disperazione, ma in realtà si tratta di una storia di rinascita».
Una storia che dal titolo farebbe subito pensare al calcio, ma che invece parla di molto altro, utilizzando i toni della commedia.
«Zamora non è una commedia convenzionale, il suo obiettivo non è solo essere divertente. Certo, qua e là si ride, ma resta comunque una storia seria. I problemi esistenziali del protagonista sono drammatici, si parla di una difficoltà, di un senso di inadeguatezza e di timidezza che per lui sono reali e allo stesso tempo universali. Nel film lo vediamo cambiare, sprofondare per poi riemergere. Per me l’aspetto centrale è proprio questo: riuscire a vincere quell’inadeguatezza e a uscire dal guscio. Parallelamente, mi interessava sottolineare l’importanza di vivere il presente facendo tesoro di ogni errore fatto durante il percorso».
Convenzionale non è nemmeno il finale della pellicola, che non è scontato.
«Mi piaceva l’idea che il protagonista accettasse il rifiuto di Ada (Marta Gastini) e che capisse che per poter essere all’altezza della storia successiva doveva prima migliorare sé stesso. Andare verso il lieto fine soltanto perché riesce a parare un rigore sarebbe stato un errore, d’altronde era così anche nel romanzo di Perrone. Nel libro la storia finisce con la partita di calcio e la sua rinuncia a giocare a pallone, mentre nel film tutto resta aperto. Volevo che nel finale ci fosse una speranza, una ripartenza. Il fatto che il protagonista decida di andare a ballare con quella ragazza che nel corso del film gli ha dimostrato simpatia è semplicemente un’apertura di ottimismo verso il futuro, significa riuscire a trovare il coraggio di rischiare, per non rimanere fuori dall’agone della vita».
Un altro elemento che colpisce in questo film sono i personaggi femminili, proprio per la loro tridimensionalità rispetto agli anni in cui è ambientato il film e a come venivano spesso rappresentati nel cinema italiano di quell’epoca.
«Spesso capita che il cinema sia troppo declinato al maschile e, di conseguenza, i personaggi femminili facciano un po’ da contorno o restino al loro servizio. In questa pellicola hanno invece tutti un loro sviluppo e un loro spessore. Nonostante il protagonista sia un uomo ci sono personaggi, come quello di Ada, che dimostrano una maturità e una profondità enormi. Oppure sua sorella Elvira (Anna Ferraioli Ravel) che fa una scelta di libertà in un rapporto matrimoniale che non la rende felice, a dispetto dell’epoca durante la quale l’obiettivo di una donna poteva essere quello di sposarsi e avere figli. Lei va oltre questa scelta, addirittura approvata dalla madre che la sostiene stappando lo spumante, mentre il padre è preoccupato di cosa diranno i vicini, quindi del consenso sociale. Lo stesso nel personaggio di Dorina (Giulia Gonnella), che è quello più moderno e che per me rappresenta il Sessantotto che sta per arrivare. Insomma, tutti i personaggi femminili hanno queste caratteristiche, quelli maschili hanno invece la possibilità di crescere proprio in virtù dell’esempio e della libertà intellettuale che queste donne dimostrano».
In questa commedia si coglie inoltre un grande amore per il cinema italiano di quegli anni, a quale tipo di cinema pensava?
«Tutti i film che ho amato e anche quelli che non mi sono piaciuti hanno contribuito a definire i miei contorni. Mi piace molto la commedia all’italiana, soprattutto quelle realizzate negli anni Sessanta e Settanta da grandi maestri come Dino Risi, Mario Monicelli ed Ettore Scola. Mi ha sempre colpito come riuscissero a raccontare storie e situazioni drammatiche con leggerezza e toni da commedia. Non erano mai banali o poco credibili. Per questo mi piace partire sempre da una situazione di credibilità e poi costruirci sopra qualche elemento di comicità, anche in certi tratti surreale, però il riferimento principale è questo. Inoltre, attualmente al cinema italiano mancano i mezzi per poter fare altri tipi di film, che sono sempre più rari. La cosa più facile resta quella di raccontare storie e la commedia è sicuramente un modo di farlo anche molto italiano. A questi mondi ho cercato di aggiungere il mio gusto personale e il mio senso di equilibrio e di armonia del tutto».