Claude Goretta, il regista colto che amava il pubblico

GINEVRA - «Si è addormentato serenamente a casa sua, circondato dalla sua famiglia» queste le parole dettate alle agenzie dai familiari di Claude Goretta, il grande cineasta svizzero spentosi mercoledì pomeriggio a Ginevra all’età di 89 anni. Una bella immagine, che si addice alla perfezione a un personaggio riservato ed estremamente modesto. Una scena che richiama alla mente una società basata sulle tradizioni, come quella che Goretta seppe tratteggiare in Si le soleil ne revenait pas (1987), tratto da un celebre racconto dello scrittore romando Charles-Ferdinanad Ramuz. Non bisogna però pensare che Goretta fosse un tradizionalista, o addirittura un retrogrado, dal punto di vista cinematografico. Al contrario. Il suo esordio dietro la macchina da presa è già una prova di grande originalità: Nice Time è un cortometraggio di 17 minuti girato nel 1957 durante una sola notte a Piccadilly Circus, nel centro di Londra, insieme ad Alain Tanner, suo compagno di corsi al British Film Institute. Al suo ritorno in Svizzera, ancora insieme a Tanner, Goretta inizia a collaborare con la tv romanda realizzando numerosi documentari e reportage: un periodo di «apprendistato» che risulterà determinante per tutta la sua carriera, durante la quale girerà film molto diversi fra loro ma accomunati da un punto di vista molto chiaro e preciso sulla realtà. È quindi del tutto naturale che il suo primo lungometraggio (Jean-Luc persécuté del 1966) sia una produzione televisiva. Nel 1968 però, insieme all’amico Tanner e ai colleghi Jean-Louis Roy, Michel Soutter e Jean-Jacques Lagrange, fonda il Grooupe 5 che si propone come una casa di produzione gestita direttamente dai cineasti. Il suo primo lungometraggio realizzato in questo contesto sarà Le fou, con François Simon, che sarà presentato in prima mondiale al Festival di Locarno del 1970. Il successo internazionale per Goretta arriva tre anni più tardi con quello che rimane il suo capolavoro: L’invitation (L’invito) che ottiene il Premio della Giuria al Festival di Cannes del 1973 e una nomination al premio Oscar per la Svizzera.
Questo insperato successo gli apre le porte del cinema (e poi della televisione) in Francia, Paese nel quale realizzerà quasi tutti i suoi film successivi. Un rapporto, quello con la Francia, di cui parla nel corso di un’intervista rilasciata al Corriere del Ticino alle Giornate cinematografiche di Soletta in occasione della retrospettiva dedicatagli nel 1998: «Preferisco fare il cineasta all’estero piuttosto che lo spazzino a Ginevra. - ci confidò il regista - Scherzi a parte, devo molto a un Paese come la Francia (...), se L’invitation non fosse stato del tutto casualmente invitato al Festival di Cannes, non avrei mai potuto fare quello che ho fatto». Ad esempio girare nel 1977 La dentellière (La merlettaia) che portò alla ribalta una poco più che ventenne (e ancora quasi del tutto sconosciuta) Isabelle Huppert, ottenendo per di più un successo commerciale non indifferente («più di 400 mila spettatori nella sola Parigi» ricordava Goretta nell’intervista citata sopra), nonostante lo scetticismo iniziale dei produttori che giudicarono il film «troppo poco francese».
Gli anni Ottanta di Goretta iniziano con un altro successo, La provinciale con Nathalie Baye, al quale fa seguito un’opera sommessa e sofferta, che fa riferimento anche alle origini italiane del regista: La mort de Mario Ricci, nobilitata dalla magistrale interpretazione di Gian Maria Volonté che venne premiato con la Palma per il miglior attore a Cannes nel 1983. Dopo un adattamento per il cinema dell’Orfeo di Monteverdi e il già citato Si le soleil ne revenait pas, Goretta torna a lavorare regolarmente per la televisione francese firmando diverse fiction e numerosi episodi di serie molto popolari, come quella dedicata alle avventure del commissario Maigret. Fino al tv-movie biografico su Jean-Paul Sartre L’âge des passions, del 2006, ultimo titolo di una filmografia che conta una trentina di opere.
Proprio il confronto tra il lavoro per il grande e per il piccolo schermo, è un altro argomento trattato da Goretta nell’intervista solettese del 1998: «Lavorare per il piccolo schermo non significa lavorare peggio ma lavorare diversamente. Per convincersene basta vedere cosa riescono a fare registi inglesi come Mike Figgis, Stephen Frears o Mike Leigh quando girano per la BBC. Se i cineasti snobbano la tv, questa finirà sempre più fra le mani di semplici esecutori svogliati e senza fantasia. Per me, lavorare per la televisione significa poter scegliere i soggetti che m’interessano. Temi universali in grado di interessare anche il grande pubblico». Parole risalenti a 20 anni fa, ma tuttora di grande attualità nonostante i mutamenti epocali vissuti nel frattempo dal cinema e dalla televisione. Parole che ci permettono di misurare ancora meglio la personalità e la chiaroveggenza di Claude Goretta che si può certo annoverare - oltre che tra i protagonisti del Nuovo cinema svizzero - anche tra i precursori di un cinema (e di una televisione) al tempo stesso colto e popolare.