Letteratura

Claudio Magris e le incertezze della vecchiaia

Tagliato il traguardo degli 80 anni lo scrittore triestino riflette sulla vita e sulla morte
Claudio Magris (Trieste, 10 aprile 1939) è stato fra i primi a rivalutare il filone letterario di matrice ebraica all’interno della letteratura mitteleuropea. (fotogonnella)
Arnaldo Benini
15.05.2019 06:00

Claudio Magris ha compiuto in aprile 80 anni ed ha pubblicato un libro con cinque racconti che più diversi l’uno dall’altro non potrebbero essere, pur se il tema comune è la vecchiaia. «Un avanzare per indietreggiare» è la vecchiaia, dice Magris, ci si inoltra «in un territorio sconosciuto per sottrarsi alla realtà» che preme «da tutte le parti spigolosa e invadente». Avanzare in che direzione, e come? È l’incertezza, a volte il dramma, della vecchiaia. Un anno prima di morire Thomas Mann, pur rimanendo attivo con letture, studi e scritti fino alla fine, annota nel diario: «Malinconia, trepidazione, ansia per il tempo che mi rimane da vivere». Incombe la disperazione e ripete spesso parole dalla Tempesta di Shakespeare che mandano moglie e figlia Erika su tutte le furie: And my ending is despair (La mia fine è la disperazione). Diversamente dalle «stucchevoli» (così le giudica Norberto Bobbio), in realtà balorde e assurde banalità che Cicerone, nel De Senectute, mette in bocca a Catone il Censore sulle delizie della vecchiaia, Bobbio sostiene che la salvezza, se salvezza ci può essere, dalle avversità, a volte atroci, dell’età avanzata non può venire che da noi stessi. Benedetto Croce, un anno prima della fine, era certo che la morte «in ozio stupido non ci può trovare.»

Inganni consapevoli

Buon proposito. Ma non tutti ne sono capaci, e la vecchiaia può essere l’ultimo, scellerato, inganno della vita. Non c’è bisogno degli introvertiti misantropi dei romanzi di Italo Svevo per rendersene conto. A volte ogni salvezza è preclusa da malattie che distruggono la mente. L’espediente per evitare che la sopravvivenza cada nel vuoto, cui ricorre l’anziano trasferitosi decenni prima dalla Moravia nella Trieste porto imperiale, raccontato da Magris, è singolare: la ricchezza accumulata con scaltrezza gli ha permesso di acquistare diversi edifici, ora amministrati da altri. Per rimanere almeno in parte dentro la sua vita, in in-cognito si fa assumere come portinaio in un suo condominio. Nella guardiola, dove arriva la mattina presto e rimane fino a tardi, rivive l’esistenza col vantaggio d’evitare le risse spiacevoli dei consigli d’amministrazione. Ricorda il matrimonio con la moglie amatissima, morta da tempo, e di cui non sa dire se veramente gli manchi. Tutto avviene quasi senza tempo: a volte non gli riesce di distinguere pochi minuti da un paio d’ore. Si sente libero e non più assillato dalle cose. Un professore di musica, avanti negli anni, si rallegra molto di un suo allievo, celebre violinista. Questi lo prega di giudicare, sulla partitura, la sua prima creazione musicale. Magris conosce gli studi di neuroscienze che dimostrano che i cervelli dei musicisti s’attivano come se sentissero la musica già alla lettura «del formicolio di insetti neri» delle partiture. Al maestro bastano un paio d’occhiate per capire la mediocrità del lavoro, ed è amareggiato per non esser riuscito a controllare l’espressione di disagio. Gli vien da pensare che «la vecchiaia non era felicità» anche se quel che era avvenuto non gli sembra particolar-mente serio. La vecchiaia dei veri maestri, d’ogni disciplina, è rallegrata da bravi allievi fin quando essi non tradiscono l’insegnamento, in genere per inseguire soldi anziché il dovere. Non rimane che il distacco, sempre doloroso. Per la sua incantevole bellezza Nori era stata nei sogni di tutti gli studenti del liceo, da cui si teneva sdegnosamente alla larga. Sessant’anni dopo, sapendo della fama di scrittore di uno di loro, racconta a destra e a manca quanto da giovani lei e lui fossero vicini. Lo scrittore l’impara per caso, e le telefona per avere spiegazioni. È salutato con «festosa confidenza...come fossimo vecchi amici». Si ricrea a parole «qualcosa che allora non c’era stato», mandando all’aria l’ordine del tempo in modo da dare un contenuto al vuoto incombente della vecchiaia. Un anziano ebreo, un tempo noto scrittore di storie ebraiche, è ospite d’onore ad una cena per la premiazione di un giovane romanziere. Il loquace e volgare anfitrione vuole convincerlo a partecipare a serate di gala, a ripresentare i suoi libri, a viaggiare in mezza Europa per rimettersi in vista e procurarsi almeno quel tanto che lo tolga dallo squallore della camera in cui vive. Lo scrittore, garbatamente, rifiuta. C’è, nella misera stanza, quel pochissimo che gli è rimasto e il ricordo, vivo e a volte confuso, dell’esistenza travagliata. Lì sente rivivere la madre, sparita «nel pulviscolo di cenere» dello sterminio degli ebrei.

Conflitti confusi

La vecchiaia è per lui soprattutto il ricordo della sofferenza. E ad esso non intende sottrarsi. Del vecchio e coltissimo letterato, traduttore eccelso dal tedesco, una parte della vita è ricostruita in un film, dalla Trieste asburgica alle demenziali e sanguinose battaglie sul Carso. In una di queste salva la vita ad un ufficiale austriaco facendolo prigioniero e sottraendolo alla furia della truppa che voleva vendicarsi dei molti compagni perduti. Collabora col regista, correggendo la sceneggiatura. La rivisitazione è dolorosa. Una donna, che da ragazza aveva vissuto con lui quegli atroci momenti, era diventata psichiatra infantile impegnata in mezza Europa. Non vuol saperne di collaborare alla ricostruzione di eventi di decenni passati di cui tutto ricorda, ma dei quali vuole tacere. Si sottrae alla tentazione di «quell’intenerimento per il passato che dimentica e fonde in un’unica commozione i conflitti di un tempo». Magris non scrive parabole e non insegna nulla: è implicitamente d’accordo con Bobbio che ciascuno ha la sua vecchiaia. Con la consueta maestria ne descrive cinque modi di essere.