«Corea, il fronte caldo della guerra fredda»

«La piccola guerra più dura del Novecento». Il terrificante massacro coreano (1950-1953) viene spesso trascurato, specialmente in Occidente, nella sua portata di evento cruciale di «semi-world war» e di minaccia senza fine che proietta le sue ombre oscure ancora sul nostro presente. Non a caso lo storico dell’Università di Pavia Gastone Breccia ha intitolato il suo recente saggio sul conflitto «Corea, la guerra dimenticata». Ne abbiamo parlato con lo studioso.
Professore, cominciamo dal titolo del suo poderoso saggio: perché, nonostante sia un evento cruciale nella storia del XX secolo e abbia prodotto conseguenze e questioni che si riverberano con evidenza nel nostro presente, della guerra di Corea ci si occupa poco anche a livello storiografico?
«Perché è una guerra senza vincitori né vinti; una guerra che l’Occidente ha combattuto “controvoglia”, come a distant obligation (titolo, non a caso della storia ufficiale britannica del conflitto), con gravi perdite ma poche soddisfazioni sia materiali che morali. Ma bisogna anche sottolineare che è una “guerra dimenticata” soprattutto per gli Occidentali: coreani e cinesi la ricordano molto bene, alcuni con orgoglio, altri con desiderio di rivalsa, tutti con la consapevolezza di una tragedia immane per il popolo della penisola».
«Guerra civile, guerra limitata, guerra per procura o di coalizione»: possiamo approfondire insieme queste tre definizioni chiave della tragedia coreana?
«Guerra civile, perché prima di tutto una guerra tra coreani, comunisti del nord e nazionalisti del sud, con tutta la ferocia di un conflitto ideologico tra fratelli. Guerra per procura, perché l’URSS non scese mai direttamente in campo, ma sfruttò le forze della Corea del Nord e della Cina – ancora sua alleata “minore” – per aprire un fronte “caldo” dove logorare gli Stati Uniti, tenendo però lo sguardo ancora puntato sull’Europa; guerra di coalizione perché, per la prima e penultima volta (la seconda, e ultima, è stata la Guerra del Golfo del 1991, autorizzata il 29 novembre 1990), una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite consentì la formazione e l’impiego di una vera e propria forza multinazionale legittima, da impiegare militarmente sul campo, e non solo come contingente di peacekeeping».
Da un punto vista strettamente militare che guerra fu quella di Corea e quali furono gli eventi decisivi che ne determinarono lo svolgimento e l’esito?
«Fu una strana guerra di transizione: combattuta sul terreno con tattiche e armi risalenti perlopiù alla Seconda guerra mondiale (come i T-34/85 nordcoreani), da unità di fanteria costrette spesso a combattere a distanza ravvicinata, addirittura corpo a corpo con il nemico, ma combattuta anche sotto il minaccioso ombrello delle armi nucleari, e mentre in cielo si incrociavano e duellavano i primi aerei a reazione... Gli elementi decisivi per il suo esito furono essenzialmente due: lo strapotere aeronavale e logistico statunitense, e lo strapotere umano cinese. Questi due elementi finirono per bilanciarsi e condussero allo stallo già alla fine del 1951. Ma la guerra è uno strumento della politica: e in ultima analisi, l’elemento che condusse all’armistizio senza vincitori né vinti fu l’equilibrio delle motivazioni e degli obiettivi politici tra le parti in lotta. L’America non volle rischiare una guerra totale, e la Cina (forse la vera vincitrice, in ultima analisi, del conflitto) si accontentò di ripristinare lo status quo ante dopo aver dimostrato al mondo di poter tener testa alla superpotenza capitalista e ai suoi alleati».
Si può dire che la Guerra di Corea (visto che le ostilità cessarono soltanto in virtù di un armistizio senza pace) non si sia veramente mai conclusa: lei è d’accordo con quanti la ritengono una sorta di «provvidenziale alternativa alla Terza guerra mondiale»?
«Certamente la Terza guerra mondiale venne saggiamente evitata. Certamente l’armistizio non è una pace, ma una possibilità di raggiungere una pace stabile, che ancora sfugge. La situazione tra le due Coree è pericolosa, ma personalmente non credo alla possibilità del riaccendersi di un conflitto sul 38° parallelo. La Terza guerra mondiale avrà orizzonti e forme nuove, difficili da prevedere, ma difficilmente il casus belli potrà essere la Corea divisa».
Quale fu il bilancio finale del conflitto e perché, specialmente dal profilo geopolitico, si può dire che a trarne vantaggio fu la Cina?
«Certamente sì, come ho già accennato. La Cina Popolare che conosciamo oggi mosse i primi passi negli anni terribili del conflitto coreano, dimostrando a se stessa, prima ancora che al mondo, di poter aspirare al ruolo di grande potenza mondiale. Il prezzo pagato fu terribile, ma la sola a uscire a testa alta dalla “guerra dimenticata” fu proprio la Cina comunista».
Venendo al nostro presente, in che modo e perché la tragedia di Corea influenza ancora nel mondo molti scenari di tensione non soltanto sullo scacchiere asiatico?
«Anche in questo caso, per due motivi. Primo, perché una situazione del genere può sfuggire di mano ai protagonisti ben aldilà delle loro intenzioni (e dei loro obiettivi razionali): più di una guerra, in passato, è iniziata per calcoli tragicamente sbagliati. Ma questa è una considerazione molto generale. Più in particolare, la Corea è nel cuore dell’orizzonte geopolitico che molti considerano o ormai decisivo per i destini del mondo – l’Estremo Oriente, il Mar della Cina, il Pacifico. Qui Stati Uniti e Repubblica Popolare stanno già giocando una partita durissima. La Corea divisa, alleata metà dei cinesi e metà degli americani, non potrà che giocare un ruolo importante in questo aspro confronto».