Sacha Zala: «Svizzera e sanzioni? La neutralità non è uno scudo magico»
Con la guerra scatenata dalla Russia contro l’Ucraina si è parlato e scritto molto a proposito del ruolo della Svizzera fra neutralità e sanzioni internazionali. E lo si è fatto anche a sproposito, senza tenere conto della realtà giuridica, politica e storica in cui ha agito e agisce tuttora il nostro Paese. Ad aiutarci a fare chiarezza sul tema è lo storico Sacha Zala, direttore a Berna di Documenti diplomatici svizzeri, istituto e gruppo di ricerca che fa parte dell’Accademia svizzera di scienze umane e sociali.
Sacha Zala, iniziamo dal concetto di neutralità: c’è un documento che ne definisce i contorni?
«Il diritto internazionale è regolato molto meno densamente di quello nazionale. Inoltre, molte cose si basano su prassi e consuetudini. Poi, molte regole, che noi crediamo siano strettamente definite dal diritto internazionale, sono invece frutto di nostre proprie creazioni, ad esempio la questione dell’esportazione di armi, regolata da nostre leggi e ordinanze e legittimate spesso anche attraverso votazioni popolari. I pochi diritti e doveri di un Paese neutrale sono definiti comunque in modo preciso dalle Convenzioni dell’Aja concernenti i diritti e i doveri delle Potenze e delle persone neutrali in caso di guerra per terra e di guerra marittima, concluse il 18 ottobre del 1907 e valide tutt’oggi. La quinta convenzione è quella rilevante per la Svizzera e venne approvata dall’Assemblea federale nel 1910, entrando così a far parte del diritto svizzero. Ovviamente la guerra che si voleva regolare con queste convenzioni era completamente diversa da quella di oggi. Basti pensare a missili, droni oppure alla ciberguerra, che praticamente non hanno più una classica componente territoriale com’era stata pensata allora, nei primi anni del Novecento. Cosa significa, per esempio, “territorio svizzero” nel ciberspazio?».
Ma allora che importanza hanno ancora al giorno d’oggi queste Convenzioni dell’Aja risalenti a oltre un secolo fa?
«Direi che al di fuori della Svizzera nessuno veramente le conosce più. Dal 1907 l’ordine mondiale ha subito tre cesure epocali. Se contiamo la guerra della Russia contro l’Ucraina anche quale cesura storica, come la storiografia futura probabilmente farà, oggi ci troviamo di fatto nella quinta trasformazione radicale dell’ordine internazionale da quando furono firmate queste Convenzioni. Per la Svizzera la neutralità gioca un ruolo fondamentale per la coesione nazionale e le Convenzioni dell’Aja rappresentano la pietra miliare per la definizione giuridica della neutralità. E per questo fanno ancora parte del nostro dibattito politico. Ma per gli altri Paesi si tratta ormai di diritto obsoleto. L’Irlanda, ad esempio, è un Paese neutrale e in queste settimane sta pure dibattendo sulla questione dell’esportazione delle armi, ma nella politica irlandese non si fa mai riferimento alle Convenzioni dell’Aja».
La Svizzera si riferisce dunque ancora alle Convenzioni dell’Aja. Ma quali sono i cardini che nella stessa regolano diritti e doveri dei Paesi neutrali?
«Il primo articolo stabilisce che il territorio dei Paesi neutrali – nel documento definiti con il termine, utilizzato allora, di “potenze” – è inviolabile e il secondo che è proibito ai belligeranti di far passare attraverso il territorio di uno Stato neutrale truppe o convogli sia di munizioni sia di approvvigionamenti. Gli articoli 7 e 8 stabiliscono poi che un Paese neutrale non è tenuto a impedire l’esportazione o il transito, per conto di questo o quel belligerante, di armi, di munizioni e, in generale di tutto ciò che può essere utile a un esercito oppure a una flotta. Inoltre, i Paesi neutrali non sono neanche tenuti a proibire o a restringere le telecomunicazioni dei belligeranti, l’allora telegrafo. L’articolo 9 precisa però che qualsiasi misura restrittiva o proibizione, se del caso, deve essere applicata dal Paese neutrale a entrambi i belligeranti. Evidentemente, è pure sancito il diritto degli Stati neutrali di reagire, quando venissero attaccati da un altro Paese».
Quindi, vi si contempla già la questione delle sanzioni come la intendiamo al giorno d’oggi?
«Per la specificità dell’articolo 7 della Convenzione dell’Aja, potremmo affermare di sì, ma non si deve fare l’errore di confondere le cose, tra diritto internazionale sulla neutralità, proprie leggi nazionali e sanzioni come quelle che sono state decise in ambito internazionale e sono state adottate dalla Svizzera dopo che la Russia ha scatenato la guerra contro l’Ucraina. E di confusione se n’è fatta parecchia da più parti, quando è stata affrontata la tematica, poiché sono stati mischiati fra loro concetti e istituti che vanno considerati separatamente. In ultima analisi, anche se in Svizzera ci piace nasconderci dietro presunti obblighi scaturiti dalla neutralità, la questione delle sanzioni non è una questione giuridica ma è una genuina questione politica. Inoltre, ricorrere alla storia, magari fino a Nicolao della Flüe, è un totale anacronismo: le sanzioni economiche nel senso moderno nascono con la creazione della Società delle Nazioni nel 1919».
Rimaniamo alla neutralità: quanto è eccezionale quella della Svizzera, in questi mesi sbandierata a ogni piè sospinto?
«Siamo soltanto noi svizzeri a identificarci con l’unicità della neutralità. Nella storia delle relazioni internazionali, però, la neutralità è lo statuto normale per la maggioranza degli Stati rispetto alla maggioranza dei conflitti. Per esempio, nella guerra per il controllo delle isole atlantiche delle Falkland-Malvine del 1982 tra Gran Bretagna e Argentina, gli Stati Uniti o l’Italia o l’Australia, come la Svizzera, sono rimasti neutrali. La nostra concezione della neutralità è molto determinata dalle due guerre mondiali e dal fatto che, per finire, la Svizzera ne uscì indenne, a differenza di altri Stati neutrali come il Belgio o la Norvegia che invece vennero invasi. Durante la Seconda guerra mondiale per la Svizzera fu dunque molto più determinante la politica commerciale in favore delle Potenze dell’Asse, ad esempio con un credito di un miliardo concesso alla Germania per rifornirsi di armi e di materiale svizzero. Si può quindi affermare che se la neutralità è un “recipiente” giuridicamente ben definito dalla Convenzione dell’Aja del 1907, la Svizzera, a seconda dei casi e del periodo storico, lo ha riempito con la politica che meglio le confaceva, non da ultimo per garantirsi dei margini di manovra. Cosa che hanno sempre fatto anche altri Paesi neutrali».
Lo strumento delle sanzioni da quando fa parte del bagaglio della Svizzera?
«Nel senso moderno, lo strumento delle sanzioni è il pilastro portante del concetto della sicurezza collettiva della Società della Nazioni, l’organizzazione internazionale promossa da Woodrow Wilson, presidente statunitense di allora, proprio per evitare le meccaniche e gli automatismi delle alleanze che avevano scatenato la tragedia della Prima guerra mondiale. I Paesi membri della Società delle Nazioni, in nome della sicurezza collettiva, si erano promessi un mutuo sostegno militare in caso di aggressione armata. Inoltre, erano anche state definite – per la prima volta formalmente sul piano multilaterale – sanzioni economiche da applicare contro gli aggressori. Lo strumento delle sanzioni avrebbe dunque dovuto far parte del nostro bagaglio politico già dal 1920, quando la Svizzera, dopo esser stata scelta per ospitare la sede della Società delle Nazioni, con voto popolare decise di aderirvi».
Ci spieghi perché ha utilizzato il condizionale...
«Proprio per riuscire a vincere la votazione internazionalmente molto simbolica per l’adesione, la Svizzera era riuscita ad ottenere una deroga a proposito degli obblighi sanciti dal Patto della Società delle Nazioni, ossia l’esenzione dalla mutua assistenza militare. Per contro, il nostro Paese aveva accettato il principio delle sanzioni economiche deciso dall’organizzazione. È proprio questa grossa concessione alla Svizzera, che per dirla chiaramente cozzava frontalmente contro i principi stessi della sicurezza collettiva del Patto, che rese necessaria una legittimazione quasi mitologica dell’unicità della neutralità svizzera. Altrimenti anche altri Paesi neutrali avrebbero voluto lo stesso vantaggio e così approfittare della difesa garantita dalla Società senza doverne però pagare i costi».
E come andò a finire la questione delle sanzioni?
«Nel 1933, con l’ascesa al potere di Adolf Hitler, la Germania, come già aveva fatto il Giappone, abbandonò la Società delle Nazioni (gli Stati Uniti, invece, non avevano mai aderito al Patto). Il deterioramento della situazione internazionale aveva iniziato a minare l’esistenza dell’organismo. Quando il Governo di Benito Mussolini nel 1935 scatenò la guerra contro l’Abissinia, che era un membro a tutti gli effetti della Società delle Nazioni, vennero decise delle sanzioni contro l’Italia fascista. Da parte sua il Consiglio federale, dopo essersi consultato con le organizzazioni economiche svizzere, decise infine di non applicarle, andando palesemente contro quanto promesso nel 1920. Proprio per giustificare questo voltafaccia s’inventò l’argomento del “ritorno alla neutralità integrale”, un presunto stato anteriore che prima della creazione della Società delle Nazioni non poteva ovviamente neanche esistere».
Lei ha spiegato che durante la Seconda guerra mondiale la Svizzera non si è salvata perché era neutrale, bensì soprattutto grazie alla sua politica commerciale. E dopo il conflitto?
«Nel 1945, alla cessazione delle ostilità, per gli Alleati il nostro Paese si trovava praticamente tra i cosiddetti “Stati carogna”, insieme agli altri neutrali come la Spagna di Francisco Franco, il Portogallo di Antonio de Oliveira Salazar, dittatore come Franco, e la Svezia che durante il conflitto aveva concesso il transito sul suo territorio di truppe tedesche. Visto come gli Stati neutrali si erano barcamenati, l’istituto della neutralità scese a zero come reputazione, tanto che quando nel 1945 venne fondata l’ONU, l’Organizzazione delle Nazione Unite, furono ammessi solo i Paesi che avevano dichiarato guerra alla Germania nazista, all’Italia fascista e al Giappone, la terza nazione che componeva il cosiddetto Asse. Tre nazioni che all’ONU sono comunque state ammesse nei decenni successivi».
Come si è quindi reagito da parte svizzera? Come si è mosso il nostro Paese?
«Per ricostruire una sorta di verginità della neutralità, la Svizzera giunse addirittura a sottacere episodi più che lodevoli di cui erano stati protagonisti suoi cittadini. Come quello del viceconsole Carl Lutz, che a Budapest, durante la Seconda guerra mondiale, aveva contribuito a salvare decine di migliaia di ebrei fabbricando dei lasciapassare per farli espatriare. Il Consiglio federale di allora si era dato da fare per evitare pubblicità all’operato di Lutz, perché avendo imbrogliato i nazisti, non si era mostrato neutrale. Ma la carta della neutralità internazionalmente ormai non funzionava più. Nel 1946, sondando il terreno per chiedere l’ammissione all’ONU con le stesse eccezioni ottenute a suo tempo dalla Società delle Nazioni, la Svizzera non si vide neppure rispondere alla sua lettera di richiesta. Insomma, non era andata giù la tattica della Svizzera, interessata ai diritti spettanti ai membri dell’ONU, ma non ai doveri a cui tutti gli altri dovevano sottostare. Come invece ha accettato di fare la Svezia, tranquillamente ammessa all’ONU già nel 1946, pur essendo fino ad oggi neutrale, come noi. Questa reticenza svizzera ad accettare i propri doveri internazionali è forse il motivo principale per la sua lunga assenza dall’ONU, fino alla votazione per l’adesione nel 2002».
Allora, quando finalmente il nostro Paese si è allineato al sistema delle sanzioni?
«Di fatto è stato già all’inizio degli anni Cinquanta e con un atto di forza, in piena Guerra fredda, la contrapposizione fra il blocco occidentale e quello comunista con alla testa l’Unione Sovietica. Agli Stati Uniti non andava giù che la Svizzera continuasse a esportare verso i Paesi comunisti beni e merci considerati di importanza strategica, cosa proibita agli Stati aderenti alla NATO. Gli statunitensi avevano quindi inviato un loro rappresentante, Harold Linder, a chiarire una volta per tutte come dovevano andare le cose, minacciando che la Svizzera, in caso contrario, sarebbe stata a sua volta travolta dalle stesse sanzioni. Di fronte a un tale aut aut, il Governo svizzero, rappresentato da Jean Hotz, si spiegò al volere americano, chiedendo però che l’accordo siglato nel 1951 (denominato Hotz-Linder-Agreement) non venisse formalizzato in forma scritta, così da poter salvaguardare l’apparenza di Paese neutrale. Alla prova dei fatti, la Svizzera in seguito a questo accordo si è però completamente integrata nel sistema delle sanzioni della NATO».
E una volta finita la Guerra fredda, dopo che è venuta a cedere la contrapposizione fra due grandi blocchi ben definiti?
«Nel 1989, con la caduta del Muro di Berlino, c’è stato un ulteriore cambiamento epocale. Per quel che riguarda la Svizzera, ciò ha significato chiedersi cosa volesse dire “essere neutrali” in un contesto completamente mutato sul piano della politica internazionale. Così il Consiglio federale, con il rapporto sulla neutralità del 1993, ridefinì i margini di manovra della sua politica di neutralità. A partire da allora, il Consiglio federale in diversi casi concreti – dall’Iraq alla Jugoslavia, alla Libia e a tanti altri – decise di aderire alle sanzioni decretate dalla comunità internazionale. Possiamo dire che dalla fine della Guerra fredda la Svizzera ha seguito le sanzioni, come è stato ora con quelle varate dall’Unione Europea contro la Russia. Tutto questo è sempre accaduto salvaguardando perfettamente i principi del diritto internazionale che devono osservare i Paesi neutrali secondo le Convenzioni dell’Aja del 1907».
Può farci un paio di esempi, a proposito delle sanzioni a cui si è allineato il nostro Paese?
«Quando nel 1990 l’Iraq di Saddam Hussein ha invaso il Kuwait, gli Stati Uniti – che hanno poi guidato la coalizione di eserciti che ha combattuto contro quello iracheno nella prima Guerra del Golfo – hanno chiesto alla Svizzera di permettere il sorvolo del nostro territorio da parte di aerei militari americani. Il Consiglio federale ha risposto con un chiaro “no”, affermando che comunque la Svizzera avrebbe applicato le sanzioni contro l’Iraq decise dalla comunità internazionale. Quindi, il nostro Governo ha rispettato quanto stabilito dalle Convenzioni dell’Aja del 1907, secondo le quali un Paese neutrale non può permettere che dei belligeranti facciano passare sul suo territorio truppe o convogli sia di munizioni sia di approvvigionamenti. Concetto ribadito dalla consigliera federale Viola Amherd, ministra della difesa, a proposito dell’attuale crisi internazionale, quando ha affermato che la Svizzera, se del caso, ammette soltanto il sorvolo da parte di voli umanitari».
Di conseguenza, per quel che riguarda le sanzioni, nulla di nuovo sotto il sole, pensando a quelle decise dalla Svizzera nei confronti della Russia in seguito all’attacco militare contro l’Ucraina...
«Infatti, perché il Consiglio federale, a questo proposito, ha seguito la politica che in materia di sanzioni segue ormai da una trentina d’anni, dalla caduta del Muro di Berlino. Mi fa sorridere chi ha contestato l’operato del Consiglio federale quando ha deciso di allinearsi alle sanzioni decise contro la Russia di Vladimir Putin, adducendo presunti obblighi della neutralità. A quanto pare non ci si rende dappertutto conto che anche la Svizzera sottostà a forti, fortissime pressioni e che l’argomento della neutralità non fa presa, come non l’aveva fatta a suo tempo nel 1951 con le sanzioni della NATO. Infatti, vista la posta in gioco e l’importanza finanziaria della Svizzera, anche il nostro Paese potrebbe essere soggetto a sanzioni. La controversia sul segreto bancario oppure quella sui beni ebraici giacenti in Svizzera dopo la Seconda guerra mondiale hanno mostrato con tutta chiarezza che se la comunità internazionale si accorda per fare pressione nei confronti del nostro Paese, alla lunga è impossibile sottrarsi agli standard internazionali».
Insomma, è così o è comunque così, neutralità o non neutralità?
«Credere di non far parte di questo mondo è naïf, come è da ingenui credere che la neutralità sia una sorta di magico scudo spaziale che ci permette di fare quel che vogliamo senza tener conto degli interessi e del potere degli altri. Insomma, non siamo un'isola. Le relazioni internazionali si basano sempre su rapporti di forza e se la comunità internazionale interviene compatta, anche la neutrale Svizzera non riesce a sottrarsi»
Specialisti delle relazioni internazionali
Lo storico
Sacha Zala è nato il 24 novembre del 1968 ed è originario di Brusio, in Valposchiavo. Ha studiato storia, scienze politiche e diritto costituzionale all’Università di Berna dove oggi è professore. Ha pure insegnato negli atenei di Zurigo, Basilea, Lucerna, Ginevra, Neuchâtel e all’università tedesca di Heidelberg. Questioni storiografiche, storia della storia, politica internazionale e politica estera svizzera, nazionalismi europei, minoranze e regioni frontaliere sono i suoi campi di ricerca. Nel 2002 ha iniziato a collaborare con Documenti diplomatici svizzeri, di cui è diventato direttore nel 2008.
Il gruppo di ricerca Dodis
Il gruppo di ricerca Documenti diplomatici svizzeri, il cui portale internet è www.dodis.ch, fa parte dell’Accademia svizzera di scienze umane e sociali. Le collaboratrici e i collaboratori scientifici di Dodis sono specializzati nelle relazioni della Svizzera con determinati Paesi e organizzazioni internazionali o in particolari ambiti tematici. I membri di Documenti diplomatici svizzeri sono anche impegnati nell’insegnamento universitario e trasmettono le loro conoscenze specialistiche su specifiche questioni storiche attraverso pubblicazioni specializzate e rivolgendosi all’opinione pubblica e ai media. Organizzano colloqui scientifici e convegni su aspetti particolari delle relazioni internazionali della Svizzera e presentano relazioni a convegni sulla storia contemporanea sia nel nostro Paese sia all’estero.