Dal cartoon alla realtà, il nuovo «Re Leone» perde la sua magia

Il Re Leone torna a ruggire al cinema, ma stavolta la drammatica e appassionante storia del cucciolo di leone Simba (uscita nel 1994, vincitrice di due Oscar e divenuta un classico Disney oltre ad uno dei film d’animazione più visti), cerca l’emozione del live-action movie e mette in campo i colori dell’Africa «vera». A firmare questa delicata operazione il regista Jon Favreau che dopo Iron Man, ha trionfato con la versione «realistica» de Il libro della jungla nel 2016, e che adesso nel Re Leone mette a profitto le tante «magie» apprese. Ed ecco che i personaggi di questa ormai famosa storia fosca dagli echi Shakespeariani hanno qui le vere sembianze di magnifici animali africani, così Mufasa, il maestoso leone Re della jungla padre di Simba, sembra uscito, al pari degli altri, da un documentario naturalistico, ma ciò non lo salva dal venire ucciso a tradimento da suo fratello, il malefico e geloso Scar, che incolpa dell’accaduto il piccolo Simba, scacciandolo dal regno, ormai divenuto suo e dei suoi sgherri le Iene, e condannandolo all’esilio nella speranza che, essendo un cucciolo, non sopravviva. Ma il fato ha in serbo per Simba un destino da Re e così aiutato dai suoi amici Timon e Pumbaa, e sorretto dall’amore della leonessa Nala, tornerà nella terra dei suoi avi per scacciare l’usurpatore e quelli che lo hanno aiutato, ma soprattutto per riportare l’armonia nel «circolo della vita» degli animali.

La storia resta insomma la stessa, ma chi come noi a suo tempo rimase incantato dal Re Leone di Roger Aller e Bob Minkoff e da quel film d’animazione che era un perfetto mix stilizzato di tragedia e d’ironia, di leggerezza e di cinismo di stampo sicuramente più umano che animale, in questa Africa così realistica e dagli immensi paesaggi che ci offre Jon Favreau, dopo un primo momento di delizioso stupore, finisce con l’annoiarsi. Infatti malgrado tutto sembri così «vero», tanto che si ha l’impressione in certe inquadrature di poter toccare con mano i personaggi, dopo un po’ ci si accorge come lo straordinario uso del CGI che interviene sugli animali antropizzandoli con piccoli ritocchi e attrezzandoli, con discrezione ed eleganza, di uno pseudo labiale che permette loro di parlare e cantare (e che tra l’altro «ricostruisce» in ogni immagine il set africano che serve alla storia), finisce col togliere al film la freschezza ed effervescenza del cartoon. Come non ricordare la cattiveria di Scar che trasudava dalle sue espressioni; o quella delle iene suggerita da loro marciare stile truppe naziste; o la follia di Timon e Pumbaa che ballavano con un gonnellino hawaiano? Tutte cose da cartoon, ma che suggerivano al pubblico una chiave di lettura in più, aggiungevano dettagli stimolanti e godibili che inducevano la commozione, la risata, che tenevano il pubblico avvinto e coinvolto. Il Re Leone di Jon Favreau è una meraviglia che ha i suoi limiti proprio nel realismo che riproduce, così i suoi personaggi non possono mostrare tutte quelle sfumature emotive che la storia richiederebbe perché il rischio è di snaturarne l’apparenza quasi fotografica, e sorge il dubbio nello spettatore che ci sia come un «errore» tra il tono emotivo delle battute e la fissità dei personaggi che le pronunciano, che alla fine inducono a guardare l’orologio più spesso del dovuto malgrado qualche dialogo inedito tra Timon e Pumbaa e alcune nuove belle canzoni che si vanno ad aggiungere a quelle conosciute.