Pandemia

Dizionario della resilienza, Z come «Zorro»

Guida pratico-poetica alla sopravvivenza in tempo di coronavirus
Il sergente García nella serie tv Zorro (1957).
Carlo Silini
Carlo SilinieLorenzo Pezzoli
15.12.2020 09:50

Z come Zorro

Dentro ognuno di noi dorme don Diego de La Vega, in arte Zorro, l’eroe con la mascherina. A questo ci chiamano i tempi, a piccoli eroismi, ma senza dimenticare di coprire il volto perché se arriva il virus non ci deve riconoscere. Siamo lo Zorro di qualcun altro: dei vicini che non possono muoversi e necessitano della spesa, dei figli, dei genitori, dei fratelli o degli amici che hanno bisogno della nostra energia perché sono giù, del nostro coraggio per andare avanti contro l’ingiustizia di un virus che tiranneggia le nostre esistenze e ci colpisce quando meno ce l’aspettiamo. Ma siamo anche lo Zorro di noi stessi, i custodi del sacro fuoco della vita e della speranza. Anche noi come l’eroe immaginario dell’allora California spagnola, abbiamo un aiutante muto come Bernardo: il nostro dolore, lo sconforto per tutto quello che è successo nel mondo. Ma siccome abbiamo dentro Zorro non scappiamo, non ci abbattiamo, sfoderiamo la sciabola della resilienza e lottiamo dalla prima all’ultima lettera del nostro personale dizionario esistenziale. E alla fine dell’emergenza (perché non dobbiamo scordare che tutto questo finirà!) con tre graffi precisi e netti incideremo sulla pancia gonfia della pandemia la «Z» della nostra riscossa.

V come VANGA

©pexels/lukas
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I luoghi di incontro prima del coronavirus? L’ufficio, la sala riunioni al secondo piano, lo spiazzo davanti alla biblioteca, la casa della nonna... E durante la pandemia? Skype, Microsoft Teams, Zoom... Lo spazio si fa evanescente, rarefatto. Dove ci troviamo realmente quando ci incontriamo su Skype? Ingolfati di tecnologia, spalmati tra disparati (attenzione a non cambiare la «a» con la «e») social network, intrappolati in riunioni sospese nell’etere sentiamo il bisogno impellente del ritorno alle cose da toccare. Qualcuno non disdegna il sogno rustico di tornare a lavorare la terra; non quella tenera e collaborante degli orti domestici allestiti nei vasi sul balcone, ma quella pietrosa e compatta che richiede muscoli e vanga per essere dissodata. L’antidoto all’eccesso di tecnologia potrebbe essere proprio la vanga, il forcone, oggetti capaci di riconciliarci con la materia facendoci sudare sette camicie. Si punta il bordo metallico col piede, si spinge a tutta forza nel terreno indurito, infine si fa leva sul solido e pesante manico in legno e la terra salta su. Succede così che, alla fine del lavoro, stanchi e sudati, dimentichiamo dove ci troviamo – in fondo non è poi così importante – ma ricordiamo con infinito piacere di avere un corpo che si prende cura della terra in attesa dei suoi frutti generosi.

U come UBI CONSISTAM

© Porapak Apichodilok da Pexels
© Porapak Apichodilok da Pexels

«Ubi consistam» è la traduzione latina di una parte dell’affermazione di Archimede: «Dammi un punto d’appoggio, e solleverò la Terra» («da mihi ubi consistam, et terram coelumque movebo»). L’inventore di Siracusa l’avrebbe pronunciata dopo avere scoperto il principio della leva, il più semplice e geniale rimedio alla fatica che si conosca. Anche un oggetto immensamente pesante, come il mondo (o la pandemia) può essere sollevato da un solo uomo con una leva, un’asta rigida. E – soprattutto – con un punto d’appoggio, un fulcro. Qual è il vostro? Qual è il tuo? Fermo restando che tutti ci appoggiamo alla scienza e alla ricerca medica e facciamo leva sui suoi migliori ingegni perché produca rapidamente un vaccino che ci liberi dalla bestiaccia, dobbiamo trovare altri fulcri sui quali posare l’asse che ci sollevi dalle inquietudini. Ci vuole qualcosa di rigido e forte come la leva - la nostra volontà – e qualcosa di piccolo, tondo e smussato come il fulcro – la nostra tenerezza - per allentare il peso di questi giorni. «Tendresse» è una parola che in francese sembra contenere i termini «tendre» (tenero) e «dresser» (rialzare): dolcezza con noi stessi e con gli altri e rigore nel seguire le norme di protezione, sono il principio d’Archimede su cui risolleveremo il mondo.

T come TELECOMANDO

© Pexels/Andrea Piacquadio
© Pexels/Andrea Piacquadio

Poco clemente nei confronti delle schiavitù digitali nelle quali siamo sempre immersi, il nostro dizionario deve almeno una parola di gratitudine per quegli straordinari strumenti di resilienza che si stanno rilevando le nuove tecnologie. Perché sì, è vero, i social network sono pascoli ubertosi per le bufale e per i ruggiti dei leoni da tastiera. Ma quanta vicinanza, quanta tenerezza, quanta poesia si sono depositati, giorno dopo giorno, in questi mesi, nelle nostre messaggerie virtuali. Quanti SMS, quanti post con faccine buone nei nostri telefonini hanno allentato anche solo per un attimo la pressione e lo stress. Senza contare il piccolo miracolo delle videochiamate. E poi c’è la tv, c’è Netflix, formidabile nonna a schermo piatto che ci racconta storie che ci spaventano e ci incantano per colmare i nostri vuoti interiori. No, non ci riesce, perché nulla è più potente di un bacio o di un abbraccio vero. Ma la sera, anche quell’ora, ora e mezza di distrazione a corpo stanco e mente piena di nuvole, in tempi come questi è una piccola benedizione. Diventiamo i re del nostro castello, siamo intrattenuti dai giullari e dai menestrelli della tv. E alla fine, quando arriva l’abbiocco, mandiamo tutti a dormire con lo scettro del telecomando.

S come SOGNO

©Pexels/Pixabay
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Un carro armato, vogliamo vincere un carro armato. Il coronavirus non ci ha trasformato in paladini dell’industria bellica, ma ci ha ricordato che il figlio del protagonista del film La vita è bella è riuscito a resistere agli stenti del campo di concentramento grazie al desiderio di un carro armato, trasformato dal genitore nel premio finale di un gioco di resilienza. Per raggiungere la meta e realizzare quel sogno, anche nel tempo della pandemia occorre saper rispettare le regole del gioco - come nel film, anche quelle faticose. È bene sopportare la stanchezza ricordando la posta in gioco: il carrarmato della salute o tutto quello che vorrete sostituirgli e oggi vi manca. Basta un sogno, a volte, per risvegliare la voglia di restare in gioco anche quando giocare non è scontato. Non sappiamo se “andrà tutto bene”, ma se ci impegniamo e onoriamo le regole avremo maggiori probabilità di vincere e arrivare in fondo. Nelle difficoltà è utile aggrapparsi ai propri sogni da un lato e a ciò che li rende raggiungibili dall’altro. Perché “i sogni son desideri.” Lo diceva Freud e lo cantava Cenerentola nell’omonimo film della Disney. Ricordandoci che sognare è un atto salvifico. È un gesto di resilienza che tiene aperto il registro del desiderio che ci solleva dalla cenere.

R come RINASCERE

© Pexels/Pixabay
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C’è una domanda alla quale, solitamente, rispondiamo senza esitazioni, con una sorta di automatismo che ci porta a reagire sicuri: quando sei nato? La data di nascita è la cosa più certa e indiscutibile che abbiamo, una di quelle faccende sulle quali sembra esserci poco da dire. Si è nati il tal giorno del tal mese di quel determinato anno. I più bravi sciorinano perfino l’ora, evocando i racconti familiari di travagli rocamboleschi. Eppure, se ci si pensa bene, le esatte coordinate temporali della nostra nascita sono meno determinate di quanto si pensi. Perché la nascita non avviene un’unica volta nel corso della vita: venire alla luce è una circostanza che si ripete a più riprese. Succede se cambia il nostro mondo, quando ci congediamo da quello uterino, per esempio. Ma avviene, soprattutto, ogni volta che modifichiamo il nostro sguardo sul mondo. Così, alle nascite succedono continue rinascite e levatrici via via differenti, non tutte ugualmente accoglienti e materne. Una volta sarà un evento importante, altre un lutto o la lettura di un romanzo meraviglioso, ma anche un amore o la sua perdita. Ovviamente, anche questa pandemia. Nessuno ci chiede il permesso di farci nascere (sarebbe meglio dire: rinascere), il processo si innesca da sé ogni volta che posiamo uno sguardo nuovo sui nostri mondi vecchi. E ogni rinascita ci rinnova e crea nuovi orizzonti.

Q come QI

© Pexels/Pixabay
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Facciamocene una ragione, l’elefante ha più materia grigia di noi. Per forza - si dirà - l’elefante è ben più grande dell’uomo! Ovvio che il suo cervello pesi più del nostro. Consideriamo allora il rapporto tra peso della massa neuronale e peso corporeo. Anche in questo caso non siamo i migliori: vince il toporagno! Il balzo evolutivo non ce lo ha consentito il numero di neuroni, ma la loro capacità di stringere legami tra loro: su questo pare che siamo imbattibili. Allo stesso modo, sono la capacità di mettere in connessione quanto sappiamo e l’abilità nel creare relazioni tra conoscenze ed esperienze a renderci davvero «intelligenti» consentendoci l’adattamento a realtà complicate. In un tempo di emergenza sanitaria con continui cambi di abitudini, tutto questo è preziosissimo. Il brillante punteggio raggiunto alla prova del Qi (quoziente di intelligenza) testato online al posto del solito Sudoku, non garantisce da solo comportamenti ingegnosi. Il QI aiuta a distinguere le informazioni corrette dalle notizie farlocche. Usiamolo per vincere paure inutili e per non farci ingannare. Ma da solo non è ancora saggezza. Mettiamo in connessione idee e intuizioni, cuore e intelletto, teoria e vita reale e potremo meritarci, anche in pandemia, l’aggettivo «sapiens» che da sempre caratterizza la nostra specie.

P come Poesia

© Pexels/Pixabay
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È inutile – nel senso venale e materiale del termine - meravigliosamente improduttiva, fulgidamente sfuggente. Ma abbiamo un infinito bisogno di poesia, la regina invisibile. Per riempirsene l’anima non occorre essere Neruda, basta rallentare il passo e indossare i suoi occhiali. Perché la poesia è una seconda vista che ci mostra, nascosto in mezzo al caos giornaliero, il dettaglio sfolgorante che illumina l’intera giornata: le ombre che si allungano come fantasmi sotto i lampioni, i mulinelli di foglie quando passa il bus, la nebbia che evapora sopra i campi brinati, lo sguardo assassino tra un ragazzo e una ragazza che si piacciono da una parte all’altra della strada, il balzo fuori da un cespuglio di un bimbo spettinato in un parco giochi. Certo, anche la poesia ha le sue esigenze: ti chiede, per esempio, di disconnetterti ogni tanto dai dispositivi digitali e di alzare lo sguardo dai loro schermi chiacchieroni. Ti implora di uscire da te stesso, dal buco nero dell’ego che risucchia i pensieri. Smetti di guardarti l’ombelico. Dirigi la tua attenzione verso gli altri, proiettati all’esterno. Non hai occhi che per te stesso, e magari fuori c’è una pioggia di stelle. Leva la testa, apri il cuore, spalanca gli occhi, lascia entrare la regina.

O come ORMEGGI

© Pexels/ Marek Piwnicki
© Pexels/ Marek Piwnicki

Le nostre vite sono barche nel mare. Puntiamo su un’isola dell’Egeo o verso un villaggio di pescatori del Nord. Più della velocità di crociera, conta la capacità di stare a galla. Perché l’Oceano è un dio capriccioso, la mattina è placido come un monaco e il pomeriggio s’arrabbia, urla e ti schiaffeggia. Se ti va bene, la tempesta arriva quando sei vicino a riva, giri la prua, ripari in porto, aspetti che la bufera si sgonfi e le acque si plachino. Benedici i pali possenti degli attracchi e ti dedichi grato alle operazioni che assicurano l’imbarcazione alla loro solida presa. Così è la pandemia: un mare in burrasca. Possiamo dirci fortunati se riusciamo a fissare il battello al sicuro. Le corde che ci trattengono a terra non ci tolgono la libertà di salpare in mare aperto, ci salvano dai marosi, dalle onde che ruggiscono e a volte ci inabissano. Non siamo navi in bottiglia, nessuno ci ha messo sotto vetro. La nostra rotta è là, ci sta aspettando. Siamo barche impazienti, ma per un po’ non possiamo partire, occorre attendere il ritorno della bonaccia. Perché navigare funziona così: c’è un momento per andare a pesca e uno per mettersi al riparo nella rada. L’arte della vita è tutto un ancorare e un liberare, seguire il vento o fissare la corda. Presto scioglieremo gli ormeggi.

N come NOE` (ARCA DI)

© Pexels/ Charles
© Pexels/ Charles

Poi le chiamano bestie. Ma chi ce l’ha, un animale (non umano) in casa, è un passo avanti agli altri sul sentiero della felicità. Senza dimenticare che, per suprema benevolenza del destino cani, gatti, criceti, conigli, pappagalli e altre creature che accompagnano le nostre esistenze non trasmettono il coronavirus. Perciò, in questa bizzarra finestra spazio-temporale, sono gli esseri viventi più abbracciabili del pianeta. Nei giorni pandemici del morale ballerino abbiamo intravisto ruvidi pastori in mezzo ai prati che arruffavano il vello alle pecore e coccolavano vacche e mufloni mentre il mondo tutt’intorno s’illuminava della luce calda della tenerezza. E poi l’entusiasmo. Com’è possibile che dopo ore lasciati soli in cuccia ad aspettare con infinita pazienza il rumore dei nostri passi che si avvicinano, Fido Lilla e Rambo ci accolgano latrando di gioia tra balzi acrobatici e forsennate corse in tondo, come allegri Sioux che circondano la diligenza? Davvero ci meritiamo tanto affetto? Gli animali riescono a consolarci anche quando ne ammiriamo le gesta nei video sui social. È un’arca di Noé alla rovescia. Nella Bibbia è l’uomo a portarli in salvo dal diluvio universale. Oggi sono loro a traghettarci verso la Terra promessa.

M come MUSICA

© Pexels/Negative Space
© Pexels/Negative Space

Da sempre immersi in un universo sonoro chiassoso, di colpo siamo stati precipitati nel silenzio dalle restrizioni imposte della pandemia. Vuoto e silenzio hanno invaso luoghi di vita solitamente popolati, a volte affollati, di persone e suoni. Allora si sono potuti ascoltare il vento tra le fronde, i bisbigli, perfino i motivetti mugugnati a bocca chiusa da Giovanna, affaccendata col ferro da stiro. Rumori di fondo e sussurri giunti fino a noi dall’appartamento al piano di sotto, o dalla strada, proprio grazie al silenzio. Scopriamo ascolti diversi ed emergono melodie per lo più nascoste che sono musica per le nostre orecchie. Perché la musica è l’articolazione creativa dei suoni che ci accompagnano e a volte ci aiutano a rallentare, a tornare in noi, o a darci lo slancio per affrontare il mondo. Suonare, in spagnolo, si dice “tocar”. In tempo di carestia di contatti fisici, scopriamo che ci sono altri modi per toccarci, e per farlo ben oltre lo strato della pelle. Le note sono carezze per l’anima. Le parole diventano musica perché ci toccano dentro. Tolta la consolazione del tatto, lasciamo che sia questa musica a toccarci. E auguriamoci che quando tutto sarà finito non manderemo in lockdown l’acquisita capacità di toccare gli altri e di farci toccare dai suoni nascosti, dalle parole uscite dal silenzio che sono la musica della vita.

L come LEGGEREZZA

©Pexels/ Lisa Fotios
©Pexels/ Lisa Fotios

Se sognate di trasformarvi in uccelli per godere la leggerezza del volo e sfrecciare nei cieli sopra i problemi del mondo, stateci attenti: potreste risvegliarvi nel corpo di un tacchino. Non ci sono dubbi sul fatto che sia un uccello. Ma avere le ali non gli consente di librarsi in aria. E allora che fate? La scrittrice Wisława Szymborska ci spiega il trucco della leggerezza. Si può sgravare il proprio peso non tanto rifugiandosi nella speranza di spiccare il volo un giorno, quanto concedendosi ogni tanto un sorriso quando si capisce di non poterlo fare. Per poi tornare, sempre sorridendo, coi piedi per terra. Non risolverà i problemi, ma ci avrà cambiato quel tanto che basta per disporci in modo differente di fronte alle fatiche e alle relazioni quotidiane. Alla fine, non conta volare come un albatros, ma saper solcare i cieli anche senza ali, con la forza dello spirito, la spinta della fantasia. Se non riuscite a staccarvi da terra, restate fedeli al suolo. Prendere esempio da Stanlio e Olio nel celebre film I diavoli volanti: fermatevi nel bel mezzo delle peripezie e ballate «guardando» gli asini che volano in cielo. Un sorriso rende più lieve la vita, è una allegra protesta contro la legge di gravità che ci tira per terra.

I come INTIMITÀ

©Pexels/Anete Lusina
©Pexels/Anete Lusina

Rasserena, alla sera, il tepore di casa. Dopo un giorno di corse e rincorse sul lavoro, a scuola e tra le strade, come palline nella roulette della vita in società (e il timore che il virus ci freghi sul più bello, facendoci perdere la posta in gioco della salute), è stupendo rientrare nel micro mondo protetto dell’intimità. Via la mascherina, via le scarpe, l’intimità è la nostra tana. Nella Libera Repubblica di casa nostra si disinseriscono gli allarmi di sicurezza e si allenta la stretta dell’autocontrollo. Varchiamo la soglia e chiudiamo fuori l’universo delle regole e dei divieti, la gimcana delle attenzioni obbligatorie. Lasciamo lo stress sullo zerbino, l’aria frizzante della notte lo spazzerà via. Le tensioni si sciolgono, c’è il divano, la musica, il cane che scodinzola, la doccia calda, il canto del soffritto in cucina, il libro ancora aperto sull’ultima pagina letta. Se vivi in famiglia ci sono i volti di lei o di lui che puoi guardare senza tenere le distanze, le mani che puoi toccare, i cari che puoi stringere forte, perché alla peggio ci si ammala tutti e si fa insieme la quarantena. Un consiglio: ogni tanto spegnete la tele lasciate fuori anche le notizie sulla pandemia. Camminate scalzi, fatevi un caffè o un the, ballate. Godetevi la tana. Domani si riparte.

H come HALLELUJA

© Pexels/ Luis Quintero
© Pexels/ Luis Quintero

Ci sono parole che vanno in lockdown. Lo fanno da secoli, confinate ed escluse dall’uso corrente per ragioni di quarantena. Possono uscire solo quando sono autorizzate, senza eccezioni o deroghe. Una di queste è Halleluja, almeno per i cattolici, che la mettono da parte durante le celebrazioni quaresimali. Halleluja, infatti, è l’esclamazione della gioia da mettere fra parentesi lungo tutti i quaranta giorni che precedono la Pasqua. Viene sostituita da blandi surrogati che hanno l’effetto paradossale di ricordarla in continuazione. La si tace, è rimandata, ma si sa che non è scomparsa o definitivamente cassata. Grazie alla sua disponibilità ad assentarsi per un po’, questa parola ci tiene in contatto con la possibilità, un bel momento, di gioire, creando così un orizzonte, quello del suo ritorno. Nel tempo quaresimale del coronavirus, ci sono alcune cose che scompaiono ma non sono perse, bensì rimandate. In un periodo in cui ad andare in lockdown, a vivere restrizioni e limitazioni sono le persone ciascuno di noi è come un «halleluja» sospeso nelle sue potenzialità che aspetta solo di esplodere quando tutto sarà finito. Come la gioia. Come gli abbracci.

G come GIARDINO

©Pexels/ Daria Shevtsova
©Pexels/ Daria Shevtsova

A cosa servono i giardini? Dovessimo rispondere con i criteri produttivi dominanti dovremmo dire: a niente. Sono belli e inutili, tutt’al più decorativi. Già, ma il termine «decorativo» indica qualcosa che «porta decoro». Un giardino, quindi, rende dignitoso anche un terreno che prima era brullo e squallido. Il suo valore aggiunto dipende dalla cura necessaria per ottenerlo. Se vogliamo che rifulga, dobbiamo spenderci ore di attenzione, spine nella pelle, ginocchia affondate nella terra, carriola e mal di schiena. Un sentiero ha bisogno di essere camminato, un giardino di essere curato. Ecco la magia dei giardini, la ragione della loro forza nascosta. Un ottimo motivo per infilarsi i guanti in cuoio e seguire con pazienza la crescita dei germogli, le processioni degli insetti e il mutare dei colori nelle stagioni dentro i tre metri quadri di verde sotto casa. I fortunati detentori di «pollice verde» lo sanno da sempre e si guardano dal parlarne troppo in giro. Certi segreti vanno taciuti. Tutt’al più ne discorrono con le amiche piante, senza ricevere risposte verbali, ma generose ondate d’energia. Dicono che se possedete una biblioteca e un giardino non avete più bisogno di niente. E se fosse vero?

F come FIABE

© Pexels/Josh-Hild
© Pexels/Josh-Hild

Volete mettere i sassolini sul sentiero, come Pollicino, per tornare da dove siete partiti? Le fiabe ci dicono che occorre andare avanti per ritrovare l’equilibrio perduto e non di cercarlo indietro, in ciò che ci si è lasciato alle spalle. Bisogna partire da dove si è. C’è il padre che abbandona i figli, quello che li manda a studiare altrove, chi li caccia di casa perché non corrispondono alle proprie aspettative. E c’è la matrigna che ordina di uccidere la figlia perché più bella di lei... Meno male che esistono i guardiacaccia pietosi! Ad un certo punto, ci dicono le fiabe, quello che sembrava familiare e rassicurante non lo è più... lo viviamo oggi nel pieno di un dramma planetario. La vita, come certi genitori delle fiabe, non sempre usa i guanti di velluto. Alla perdita di un regno, di una sicurezza, di una casa o di una famiglia corrisponde l’autentica possibilità di conquistarne una nuova. Leggere le fiabe dunque, non ci fa tornare piccoli. Se non ci crediamo, perdiamo la condizione del bambino che non è la giovinezza, ma la possibilità di crescere anche quando le cose si mettono male. Perciò, avanti: rispolverate fiduciosi quella vecchia edizione dei Grimm che tenete in libreria nel secondo ripiano tra Moby Dick e il catalogo su Giotto.

© Pexels/ Yuri Manei
© Pexels/ Yuri Manei

E come ENTUSIASMO

C’è ancora spazio per l’entusiasmo nel vocabolario (per lo più anglofilo) della pandemia? Eppure, entusiasmo è più di una parola, è la sentinella del nostro benessere. Quando non sentiamo più la sua spinta si smorza lo slancio della vita, subentrano noia, ripiegamento, perdita del gusto... come quel sintomo che sembra segnalare, assieme alla scomparsa dell’olfatto, la presenza della COVID-19: perdere l’entusiasmo è non percepire più il sapore delle cose. Non basta un virus qualunque per togliercelo, a volte è sufficiente la quotidiana routine, anche senza complicità virologiche. Che sia qualcosa di speciale lo dice l’etimologia. La parola deriva dal greco «enthus» o «en-theos», cioè avere un dio dentro. E cosa c’è di più divino della capacità di creare e dare vita? Perdiamo l’entusiasmo non quando siamo afflitti da una preoccupazione, colpiti da una malattia o piegati da una crisi, ma quando ci dimentichiamo di essere detentori di una scintilla interiore. Per risvegliarla a volte è utile occuparsi degli altri, fare una cosa semplice per una persona vicina: un gesto di attenzione, un piccolo dono, una chiamata o un biglietto. La sua soddisfazione avrà il potere di restituirci oltre ai sensi intorpiditi il sapore della vita.

D come DOLCEVITA

© PEXELS/ NÉO RIOUX
© PEXELS/ NÉO RIOUX

Ai tipi calorosi non piace la sensazione troppo avvolgente del dolcevita sul collo. Ma quando le dita del solletico lavorano giù in fondo alla gola, quello strato morbido in più tra testa e torace è un balsamico scacciapensieri, la barriera di protezione dallo spiffero infido, l’armatura di cotone che può scongiurare notti infernali scandite dai colpi di tosse. Abbiamo detto tosse, parola-tabù in tempi impauriti come questi, malanno passeggero che nell’ansia da COVID ti esclude dal mondo dei puri e dei sani anche quando è un risibile raffreddore. Ma allora copritevi! Resilienza è protezione anche dalle cose da poco, dall’ombra di un sospetto, dal timore di contagiare gli altri con un sorriso. Se fuori piove la pandemia, non è insignificante rifugiarsi nella semplice caramella alle erbe da far sciogliere in bocca, nel the alla melissa, nelle coccole al mentolo. Dolcevita, lo dice il nome, è rendere piacevole l’esistenza, morbido ciò che è ruvido, zuccherato ciò che è amaro, è stringersi tra panni e pensieri caldi, privilegiare il tocco leggero, la delicatezza, la cura sorniona di sé e dell’altro. Basta poco: una sciarpa, una coperta, una carezza ed è subito dolce vita.

C come CURA

© PEXELS-PIXABAY
© PEXELS-PIXABAY

Un fiore sul tavolo, un biglietto, un bacio soffiato, una visita inattesa. Senza scomodare i miti antichi, bisogna ammettere che la cura ha da sempre avuto i suoi santi in paradiso, a partire dagli antichi romani dove alla sua personificazione mitologica veniva affidato l'uomo tutto intero, anima e corpo. Come a dire che non c'è cura del corpo che non sia anche cura dello spirito e viceversa. Il cristianesimo ne ha poi associato la pratica ad una schiera di santi, tutti caratterizzati dall’interesse e dall’attenzione per le fragilità umane. Ad essere precisi, una volta saliti agli onori degli altari, quegli uomini che in vita si sono spesi nella cura del prossimo in Terra sono passati al fronte della guarigione dei sofferenti dal Cielo: una promozione sul campo. Non essendo (ancora) santi, il tempo della cura (che non sempre porta alla guarigione) appartiene all’uomo sulla Terra. A ciascuno di noi è affidata la capacità di attenzione, partecipazione, vicinanza. Il buon esercizio della cura, di sé e dell’altro, non è esclusivo del tempo della malattia, dovrebbe appartenere alla quotidianità. Mettere cura nelle cose è un buon investimento sia nei giorni della salute che in quelli dei malanni. Quando si sta bene aiuta a prevenirli, quando la situazione è difficile aiuta a renderli più sopportabili.

B come BELLEZZA

© PEXELS-PIXABAY
© PEXELS-PIXABAY

Il dolce frastuono del mare, ecco cosa manca a noi svizzerissimi orfani delle vacanze balneari. Anche di questo ci ha privato il coronavirus. Eppure, dall’arsenale della resilienza possiamo estrarre armi efficacissime contro la frustrazione e la mancanza di salsedine. Una delle più forti è la bellezza. Possiamo essere poveri in canna, ma nessuno può privarci dello struggente spettacolo del mondo in cui viviamo immersi. L’autunno è una sinfonia di colori caldi che danzano sulle strade spazzate dal vento. L’inverno è una finestra da cui si intravede il fuoco di un camino nella notte. Non c’è potenziale lockdown che ci impedisca di accorgercene, di abbandonarci all’abbraccio ristoratore dei boschi, al verde rinvigorente dei prati, all’ascolto rispettoso del silenzio nella solennità delle montagne. Il bello non lo puoi comprare, non è un lusso per miliardari. O lo vedi o non lo vedi. O lo cerchi o non lo cerchi. È alla portata di tutti. Si nasconde nel riflesso del sole nello specchio, negli occhi lucidi di un cane, nelle liriche di un poeta irlandese, nel ritmo sincopato di un’improvvisazione al sassofono. Ci vivi dentro ma troppo spesso non te ne accorgi. Apri gli occhi, spalanca il cuore: è lì proprio per te.

A come ALTALENA

©Pexels/Thiago Lemberg
©Pexels/Thiago Lemberg

Tra i diritti umani più sacri e irrinunciabili bisognerebbe includere quello all’altalena. Se sei un bambino non hai neppure il problema di rivendicarlo: ci salti sopra, ti fai spingere da un adulto o da un compagno e la felicità è lì, nell’andirivieni a pochi centimetri dal prato spelacchiato del parco, le gambe a penzoloni, le guance rosse e brucianti nell’aria fresca che accarezza la faccia. Se sei un adulto, invece, vorresti tanto farlo ma magari, per pudore, ci rinunci. Se l’hai provato anche solo una volta, il piacere dell’altalena è un mistero indimenticabile e perfetto. Pare impossibile che la gioia si riattivi facendo su e giù sopra il nulla con le mani aggrappate a due catene: eppure succede, il peso del tuo corpo svanisce, voli, cacci urla e chiudi gli occhi. Succede anche se hai ottant’anni. Partiamo da questo sogno per la prima voce del nostro dizionario della resilienza in tempo di coronavirus, dall’immagine potente e poetica di un vecchio che oscilla felice sopra i cattivi pensieri. Cercatevi la vostra altalena, reale o metaforica, perché la vita oscilla sempre tra il bene e il male. Nel costante l’andirivieni tra paura e coraggio, la felicità sospende tutto e scaturisce per incanto dalle cose più semplici.

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