L’intervista

«Ecco chi era Alda Merini, mia madre»

Emanuela Carniti, figlia primogenita della poetessa milanese scomparsa dieci anni fa, ne tratteggia in un libro la sfaccettata personalità, tra tormenti, speranze e un incredibile bisogno d’amore
Alda Merini (Milano 1931-2009). ©Flickr
Francesco Mannoni
30.10.2019 06:00

Si può raccontare come una madre normale una donna instabile ma geniale che ha scritto alcune delle raccolte poetiche più belle del Novecento? Emanuela Carniti, primogenita di quattro figlie e poetessa anche lei a dieci anni dalla scomparsa ci prova con Alda Merini, mia madre (ed. Manni): cuore traboccante di ricordi, e grande fermezza nel valutare i pro e i contro di una convivenza complessa.
Come tutti i geni la Merini aveva i suoi lati oscuri. Per la figlia era una persona non risolta, non equilibrata che oscillava tra la carnalità e la spiritualità, la realtà e la fantasia, gli incubi e i sogni. E non capiva quali potevano essere le esigenze della figlia. «Il suo modo di fare era vampiresco – afferma Emanuela Carniti – perché portava via qualcosa anziché dartela. La poetessa l’ho conosciuta bene, la donna l’ho intuita attraverso le poesie e i suoi comportamenti. Sapeva con lucidità che lei era poeta a prescindere dalla dolorosa esperienza manicomiale; lo era prima, lo è rimasta durante e continua ad esserlo: una rivendicazione orgogliosa e definitiva. Io cercavo un po’ di snobbarla, perché avevo bisogno di una mamma».

Lei parla di «diversità» per sua madre: non sarebbe meglio parlare di eccezionalità per «la piccola ape furibonda»?
«Direi che anche l’eccezionalità è una diversità. Ogni cosa che esce in modo così eclatante dalla norma e dai canoni della normalità e dalla banalità, è troppo. Ma diversità intesa come “prodigio”, non come negatività».

Sua madre ha amato tantissimo: amare era il suo modo di reagire alle avversità della vita?
«Credo di sì. Amare le dava modo di esprimere le emozioni che aveva dentro: emozioni anche contraddittorie, ma chi scrive ha bisogno di emozionarsi per creare. Il suo vissuto interiore aveva bisogno di uno stimolo per emergere. L’innamoramento a lei serviva anche per poter attingere al magma che aveva dentro».

Nel libro accenna a dei fantasmi che l’avrebbero tormentata: a cosa si riferisce?
«Credo che abbia avuto delle grandi paure che non sono state colte nel momento in cui le aveva provate e poi sono state amplificate in modo improvviso e devastante. Però erano paure che credo avesse già dentro di sé, e le aveva già manifestate in qualche modo. Dopo il primo ricovero in clinica quando aveva solo diciotto anni, in una ventina d’anni è stata ricoverata una trentina di volte: significa che qualcosa le ribolliva dentro. Il ricovero coatto è stato sempre uno shock che ha alimentato grandemente le paure che potevano distruggerla».

La poetessa l’ho conosciuta bene, la donna l’ho intuita attraverso le poesie e i suoi comportamenti. Sapeva con lucidità che lei era poeta a prescindere dalla dolorosa esperienza manicomiale: una rivendicazione orgogliosa e definitiva

Che cosa alimentava la discordia fra i suoi genitori? Intolleranza, disamore?
«Non era disamore: era esasperazione. La mamma era esasperante e mio padre non aveva il dono della pazienza a causa del suo carattere ma anche per il tipo di lavoro che faceva. Il prestinaio era un lavoro faticoso, e i suoi desideri erano molto elementari: desiderava una famiglia serena, ma la mamma era una persona inquieta con dei bisogni che esulavano dal tran tran quotidiano. E le liti scoppiavano oltre che per questioni economiche, anche per piccole divergenze. Qualche volta si picchiavano, e questo era molto doloroso per me che assistevo».

Definirebbe oggi sua madre una donna complessa che compiva azioni non sempre comprensibili?
«Mia madre era molto complessa e faceva spesso delle azioni non comprensibili dal punto di vista delle figlie, come quando le arrivò una bolletta telefonica di cinque milioni: era il tempo in cui telefonava tutte le sere a Michele Pierri in Puglia. Ma era una donna geniale, un poeta ed era quello che sono i poeti. Io m’aspettavo invece una mamma premurosa, ma lei non poteva. Il 90% della sua vita era assorbito dalla genialità poetica, dal suo mondo interiore così ricco, per cui la famiglia passava in second’ordine e dava la priorità al suo mondo fantastico: “L’essere stata in certi tristi luoghi,/coltivare fantasmi/come tu dici, attento amico mio,/non dà diritto a credere che dentro/dentro di me continui la follia/.Son rimasta poeta anche all’inferno”».

Alda Merini che con la sua opera ha ispirato cantanti e musicisti, ha sempre vissuto nella Milano dei Navigli. Cos’era per lei questo quartiere?
«I navigli erano il suo mondo: la sua vita – e la mia – si è svolta lì, in quella specie di “piccolo mondo antico”. Una volta i navigli erano un universo a sé anche se malfamato: c’era un po’ di tutto compresa delinquenza e prostituzione, ma anche tanta umanità. Oggi sul portone della sua casa in Ripa di Porta Ticinese 47, c’è una targa che la ricorda. Le sue cose, vecchi oggetti, carte, macchina da scrivere, collane, rossetto, posaceneri pieni di sigarette senza filtro, numeri di telefono e appunti annotati su quello che è stato definito il “Muro degli Angeli”, sono state invece trasferite allo “Spazio Alda Merini“, in via Magolfa 32».

Quando si è resa conto che sua madre era una delle voci poetiche più importanti del Novecento?
«Ho realizzato fino in fondo – sebbene sapessi che era conosciuta – quello che era veramente solo quando è scomparsa. E penso che per le mie sorelle sia stata la stessa cosa. Per quanto fosse famosa, non pensavo che avesse raggiunta una popolarità così elevata e fosse diventata una voce poetica dirompente: l’abbiamo capito solo quando è mancata e abbiamo visto la partecipazione popolare al nostro lutto».

Una sua frase che ricorda sempre?
«Illumino spesso gli altri ma io rimango sempre al buio».

Il libro

Della madre Alda Merini, (Milano, 21/03/1931 – 01/11/2009), poetessa che da giovane ebbe l’avallo di critici come Giacinto Spagnoletti e Maria Corti, la figlia Emanuela racconta i tormenti e le speranze. Istintiva e guerriera, per tutta la vita ha scritto e amato (la love story con Giorgio Manganelli - al tempo aveva solo 15 anni e lui era sposato-, i matrimoni con Ettore Carniti - padre delle quattro figlie- e con Michele Pierri, medico poeta di Taranto, trent’anni più anziano), e lottato con la malattia e i frequenti ricoveri in manicomio (dal 1965 al 1978). Per vent’anni è vissuta in silenzio, i libri giovanili quasi dimenticati, ma dopo La pazza della porta accanto (Bompiani 1995), ha pubblicato decine di libri di poesia e narrativa in cui ricorda la sua «stagione all’inferno». Il libro è un omaggio a una madre geniale della quale Emanuela celebra il valore artistico, quasi risarcimento a una poetessa incompresa e a sé stessa, messa da parte per la poesia.