Eugenio Scalfari tra pubblico e privato

Pochi giorni fa la televisione italiana, Rai Tre, ha mandato in onda un documentario che mi ha profondamente colpito. Si intitola Sentimental Journey, come una celebre canzone che portò al successo nella seconda metà degli anni Quaranta Ella Fitzgerald. E racconta la vita di Eugenio Scalfari. Un racconto fatto dalle sue due figlie: la fotografa Enrica e la giornalista Donata.
Scalfari compirà 98 anni ad aprile, e il documentario ripercorre il suo mondo, la sua infanzia, gli inizi come giornalista, le case, le fotografie, i ricordi. Ma anche il rapporto con il potere, i suoi sentimenti privati, le sue passioni. Le poesie, i suoi libri. E il suo giornale, quello che ha fondato e diretto per vent’anni, quello su cui firma i propri editoriali ancora oggi.
Non c’è da stupirsi che un uomo che ha fatto la storia della cultura italiana, e ovviamente del giornalismo, arrivato a un’età venerabile voglia raccontarsi, mettere al centro delle cose il suo punto di vista, voglia dare di sé un ritratto intimo. Ma in questo caso c’è molto di più, perché a fare da maieute ci sono le sue figlie. Sono loro a stimolare, a chiedere, persino a insistere, loro a cercare le immagini, a confrontarsi con Eugenio.
Ne esce qualcosa di speciale, che non ha la freddezza di certi documentari che si pongono come un tributo a un grande personaggio, ma che nella sua intimità, nel suo continuo mettere in gioco privato e pubblico di Scalfari mantiene un equilibrio elegante, sottile, discreto.
È raro tutto questo. Da molti anni non riusciamo più a percorrere quella via mediana tra pubblico e privato. Con l’avvento dei social network e con una informazione che non rinuncia mai all’indiscrezione, al sottotesto, persino al pettegolezzo, è diventato molto difficile rimettere sul tavolo della storia, della cronaca quello che conta davvero. Ogni volta sembra che si debba svelare qualcosa, ogni volta è un voler dire sempre troppo, uno svelare ciò che non serve a niente, uno stupire senza una ragione necessaria. Quello che si sa, e sarebbe tutto da dimostrare che si sappia veramente, viene dato per assodato, per ovvietà. Raccontare il passato e il presente ha un senso soltanto se c’è qualcosa di nuovo, se c’è da strappare un velo di Maya, che poi magari diventa poco più di una sottoveste.
Curiosità perduta
Questa incapacità di guardare con obbiettività ci ha reso vittime del nostro tempo. Ci impedisce di capire e di sapere. Questa volta invece, anche con interventi puntuali e nitidissimi di Lucia Annunziata, Fabrizio Barca, Walter Veltroni, Ezio Mauro e Paolo Sorrentino, oltre all’amico di sempre Bernardo Valli, si apre un mondo e direi di più, un privato che si fa pubblico. In una continua immersione, e in un continuo capovolgimento. Scalfari è l’inventore del giornalismo moderno, come lo intendiamo oggi. Lo ha fatto con la lucidità che gli veniva dall’essere certo un giornalista di razza, ma prima di tutto un intellettuale a tutto tondo. Un uomo capace di fare del giornale che ha diretto una voce politica, nel senso più nobile del termine, uno strumento di informazione, un presidio di libertà, un punto fermo per la democrazia. Ha mescolato i ruoli, è stato capace di intuire e poi far crescere i talenti, ha cambiato idea quando lo riteneva giusto, senza mai di-mostrare rigidità o dogmatismi di qualsiasi genere, restando però fedele ai suoi principi.
E anche in Sentimental Journey tutto questo esce con evi-denza e con grande suggestione. Esce anche il fatto che un mondo è scomparso. Non solo quello delle rotative e dei giornalisti di un tempo, non solo quello delle battaglie politiche dove la modernità era il primo imperativo. Ma anche di persone che avevano la passione del discutere, la curiosità verso gli altri. Chi è stato un giovane giornalista del suo gruppo editoriale, o un suo giovane praticante, lo sa bene. Il dialogo con lui era sempre aperto, la sua capacità di rispettare il suo interlocutore, di dialogare, non facendo mai pesare il suo ruolo, quella sua autorevolezza che si sposava sempre con la disponibilità, sono qualcosa che oggi ci appare impossibile. In questa contemporaneità c’è poca disponibilità, scarsa pazienza, tanta distrazione, e spesso (non sempre, certo, ma spesso) i direttori dialogano poco con i loro giornalisti e magari assai di più con politici e potenti, riducendo a poca cosa il mondo dei libri, della cultura, delle idee.
Nel documentario su Scalfari realizzato dalle figlie gli oggetti che più si vedono in mano a Eugenio - negli spazi dove vive - sono i libri, le carte, le immagini, le storie. Libri letti, ricordati, citati e amati. È un sollievo trovare tanta lucidità da quest’uomo quasi centenario che ha insegnato a tutti noi, e che a sua volta ha imparato ogni volta che lo ha ritenuto giusto.
Il Meridiano del 2012
Citare tutti i libri di Eugenio Scalfari sarebbe davvero un’impresa. Ma molto schematicamente si potrebbero dividere in due fasi. Quella pu-ramente giornalistica, con titoli celebri come Razza padrona (1974) e La sera andavamo in via Veneto (1986). E poi la seconda produzio-ne saggistica, narrativa e filosofica. Di questa seconda produzione voglio citare tre testi che ritengo particolarmente importanti. Incontro con Io, del 1994, La ruga sulla fronte del 2001, e L’amore la sfida, il destino. Il tavolo dove si gioca la sfida della vita del 2013. Ora tutti editi dalla casa editrice Einaudi. E con Einaudi, Scalfari ha pubblicato anche un bel libro di poesie, malinconico e allegro, se i due termini possono andare assieme: L’ora del blu (2019). I suoi scritti sono raccolti in un Meridiano di Mondadori uscito nel 2012.