Federico Fellini cent’anni dopo

«Il cinema è un modo divino di raccontare la vita, di far concorrenza al padreterno. Nessun altro mestiere consente di creare un mondo che assomiglia così da vicino a quello che conosci ma anche agli altri, sconosciuti, paralleli, concentrici». Questa frase di Federico Fellini (tratta da una lunga «Intervista sul cinema» curata da Giovanni Grazzini, pubblicata da Laterza all’inizio degli anni Ottanta e più volte ristampata) coglie uno degli aspetti centrali dell’opera e della personalità del grande regista italiano, nato un secolo fa a Rimini. Pur avendo iniziato a lavorare nel mondo della settima arte subito dopo la Seconda guerra mondiale, quando in Italia imperava il Neorealismo, Fellini se n’è a poco a poco staccato, finendo con l’approdare a un universo sempre più lontano dalla realtà, ma che con essa ha sempre mantenuto dei legami molto stretti.
Dal Neorealismo a Cinecittà
Film dopo film, il suo set privilegiato (e in certi casi quasi esclusivo) diventa il teatro di posa n. 5 di Cinecittà.
Questa scelta - ovviamente molto costosa e che quindi gli impedirà di concretizzare non pochi progetti - gli permetterà però di evitare quel che odiava di più - l’approssimazione e la stupidità -, ma soprattutto di portare avanti una «doppia esistenza» all’interno della quale la vita vera e le storie che racconta sul grande schermo si mischiano indissolubilmente. Ancora Fellini: «Il cinema ti permette miracolosamente questo doppio, grande gioco, di raccontare una storia e, mentre la racconti, viverne tu stesso un’altra, avventurosa, con personaggi straordinari quanto quelli del film che stai narrando; e a volte anche più affascinanti, e di cui parlerai in un altro film, in una spirale di invenzione e di vita, di osservazione e di creatività, spettatore e attore nello stesso tempo, burattinaio e burattino».
Uno stato di totale (con)fusione tra arte e vita che fa dire al regista di essersi scordato persino i suoi ricordi d’infanzia poiché, dal momento in cui li ha consegnati al pubblico dentro a un film, non sa più distinguere tra ciò che gli è realmente accaduto e quello che si è inventato di sana pianta.

Alla ricerca della bellezza
Nessuna imitazione della realtà dunque, ma una instancabile ricerca della bellezza, perché per Fellini il bello è sinonimo del buono e la bellezza significa intelligenza. Bellezza, bontà e intelligenza non cadono però dal cielo ma sono frutto «di rigore e di elasticità insieme». «Devi essere intransigente, ma anche morbido, attento a cogliere resistenze, diversità, anche gli errori, con uno spirito di vigile responsabilità» dice ancora il regista a Grazzini.
Come gli affreschi di «Roma»?
Cosa resta di questo spirito nel cinema di oggi? L’opera di Federico Fellini è ancora viva a cento anni dalla sua nascita oppure - come accade ai magnifici dipinti del sito archeologico che viene scoperto per caso dalla troupe del finto documentario Roma (1972) - si è sbriciolata nel giro di un attimo dopo la sua scomparsa il 31 ottobre del 1993? Anche se il regista de La dolce vita non ha lasciato eredi diretti, il suo cinema è senz’altro ancora vivo e i suoi colori (anche quando si tratta di pellicole in bianco e nero) sono tuttora sgargianti e sorprendenti. Forse proprio grazie a quel miscuglio, unico e inimitabile, tra vita vissuta e pura invenzione, tra conscio e subconscio (il suo Libro dei Sogni è un catalogo di magnifiche ossessioni), tra capacità di ricreare un mondo fantastico in cui tutti possiamo ritrovarci, prendendo al tempo stesso spunto dai fatti minimi dell’esistenza.
Metà degli anni Ottanta, a Roma si respira un’atmosfera ancora fortemente legata all’epoca d’oro del cinema italiano, quando Cinecittà gareggiava con Hollywood ed i «Maestri» italiani erano ancora in grado di conquistare i premi più prestigiosi ai festival più importanti ma anche il favore del grande pubblico ben al di fuori dei confini nazionali.
Nel 1993, la scomparsa di Federico Fellin segnò la fine definitiva di questa eccezionale stagione iniziata nell’immediato dopoguerra con i capolavori del Neorealismo e che, oltre all’opera al di sopra delle semplici classificazioni di un trio di eccezionali cineasti (lo stesso Fellini, Antonioni e Visconti), aveva trovato il modo di raccontare con successo un Paese in piena mutazione grazie alla sferzante ironia della migliore «commedia all’italiana».
Nella Roma di metà anni Ottanta, poteva anche capitare (come è capitato a me) di aggirarsi, in una giornata d’inverno, nelle labirintiche salette della storica libreria Feltrinelli di via del Babuino (ora scomparsa) e di imbattersi nell’inconfondibile sagoma felliniana con tanto di cappello calcato in testa, mantello e sciarpa rossa. Un po’ per curiosità (vediamo cosa legge...), un po’ per attrazione fatale (e se mi proponesse di lavorare su un suo film?) lo seguo, ma d’improvviso ecco che la luce se ne va e piombiamo nel buio più assoluto. Tentoni, cerco di orientarmi, di non lasciarmi sfuggire quell’occasione forse unica. Dopo pochi secondi la luce ritorna, ma di Fellini non c’è più nemmeno l’ombra. Percorro tutte le sale e la salette, scruto in tutti gli anfratti fra gli scaffali, arrivo senza fiato all’uscita, sto per chiedere alla cassiera se per caso non ha visto... quando mi assale il dubbio: e se ciò che ho appena vissuto non fosse altro che un’allucinazione o un sogno, come capita al Mastroianni della Città delle donne? Un dubbio che rimane tale ancora oggi.