Anniversari

Fenomenologia di Ugo Fantozzi, icona di un mondo che non c’è più

Nel luglio del 1971 Paolo Villaggio pubblicava con la casa editrice Rizzoli il primo libro dedicato al suo personaggio più famoso - L’iconografia popolare italiana si arricchiva di una “maschera” tragicomica il cui successo sarebbe stato travolgente e soprattutto duraturo
Dario Campione
08.07.2021 06:00

Ha inventato un linguaggio. Ha fatto a pezzi (con l’ironia) il politicamente corretto molti anni prima che diventasse un mantra intoccabile. Ha messo in ridicolo il potere nell’unico modo possibile: essendogli servile. Ha sdoganato l’iperbole: nei sentimenti, così come nei gesti e nelle parole. È stato l’uomo senza qualità che si è fatto eroe. Per caso. E suo malgrado, ovviamente.

Il ragionier Fantozzi compie in questi giorni 50 anni di gloriosa esistenza letteraria. Fu infatti nel luglio del 1971 che Paolo Villaggio trasformò in libro alcuni articoli scritti per l’Europeo, dando loro dignità di racconto e organicità.

Senza poter immaginare quanto sarebbe accaduto negli anni a venire, l’attore e umorista genovese tracciava, con quel volume, un primo segno indelebile nell’iconografia popolare italiana, inventando un personaggio reale e insieme caricaturale, tanto vero nella sua essenza quanto adulterato nei suoi tratti. Una sorta di cartone animato tragicomico, il cui obiettivo primario era sicuramente divertire il pubblico, ma forse anche tentare di descrivere i cambiamenti sociali senza precipitare nella inevitabile noia dell’accademismo.

Una normalità che stritola

Il successo straripante del personaggio inventato da Villaggio è legato a molti fattori. Innanzitutto, la capacità di svelare a ciascuno la propria “normalità”. Fantozzi è l’ingranaggio minore della grande macchina industriale, nella quale è entrato con la qualifica più bassa, quella di “spugnetta per i francobolli”. È l’omino stritolato dai torchi del sistema, la cui vita di borghese piccolo piccolo è scandita dalla routine, dalle invidie, dalle serate trascorse davanti alla Tv in mutande e canottiera, in mano una birra gelata e nella gola il rutto libero. Un perdente senza speranza, una vittima imbelle della società, l’italiano emerso dall’onda lunga del boom economico: casa in affitto, auto di proprietà (anche se piccola e rumorosa), vacanza al mare con i gonfiabili e la pasta al forno sotto l’ombrellone, una vita cadenzata da una trascurabile infelicità. In famiglia e al lavoro. Una figura della quale ridere e nella quale specchiarsi senza troppe angosce.

Come ha scritto qualcuno, Fantozzi è «l’italiano medio, piegato all’etica del servilismo nei confronti dei potenti, sfruttato sul luogo di lavoro in tempi in cui la parola mobbing era ancora sconosciuta, schiacciato tra l’incudine del miraggio della rincorsa al successo economico imposta dalla società e il martello della sua impossibilità a raggiungerlo. È uno sfigato, detto in parole povere, uno sfruttato, e vederlo vinto, sconfitto, caduto, sbeffeggiato, offeso, denigrato ha nello spettatore o nel lettore un effetto catartico. Fantozzi è tutti noi nella vita quotidiana. La sua infima esistenza rassicura: “C’è chi sta peggio di noi”, si pensa; e paradossalmente induce a ridere dei drammi e delle sventure che noi stessi subiamo».

Il Travet di Vittorio Bersezio

Nella storia letteraria italiana, in realtà, Fantozzi non è un personaggio del tutto nuovo. Villaggio ricalca infatti il modello creato dallo scrittore piemontese Vittorio Bersezio nel 1863: Monsù Travet, il cui cognome è rimasto nel linguaggio comune quale sinonimo dell’impiegato statale, del burocrate, l’omino perennemente piegato sulla scrivania, con le mezze maniche a proteggere la camicia immacolata dall’inchiostro e dalla polvere. Per più di 30 anni il regio funzionario Travet varca ogni giorno la soglia dello stesso ufficio. Puntuale, diligente, scrupoloso. Soprattutto fedele. Ma mai promosso. Perché il potere è sempre cinico e freddo con chi non solleva la testa.

Il comico genovese, però, va oltre. Gli anni Settanta del Novecento sono il tempo dei conflitti sociali, la cuna della ribellione terroristica. Fantozzi accetta la sua condizione subalterna in nome del posto fisso e della rassicurante condizione di salariato. Cova la disobbedienza ma non la esprime. Se non occasionalmente. Subendone sempre «terrificanti conseguenze». Il suo sogno si ripete, vano: spezzare la catena delle giornate perennemente uguali, una dopo l’altra: cartellino timbrato all’entrata, cartellino timbrato all’uscita, in mezzo la noia, la rabbia e la caduta di ogni illusione. Fantozzi agogna una stanza ai piani alti della Mega Ditta, accanto a quella dei Duca Conti, con le poltrone di pelle umana e le piante di ficus a ogni angolo.

Un’icona fordista

Cinquanta anni dopo, è ancora vivo Fantozzi? È sempre seduto alla sua scrivania o combatte e si dispera con le connessioni Internet di casa nel disperato tentativo di collegare il computer per iniziare la sua giornata di telelavoro? Sarebbe potuto nascere, un ragionier Ugo Fantozzi, negli anni ’20 del XXI secolo?

«Difficile dirlo - ammette Nicola Cianferoni, sociologo del lavoro ticinese e ricercatore associato all’Istituto di ricerche sociali dell’Università di Ginevra - effettivamente il personaggio inventato da Paolo Villaggio è un’icona della società fordista: oggi il mondo è molto cambiato, la carriera professionale non si svolge più in un’unica azienda, c’è maggiore precarietà».

È mutato il contesto del lavoro, diventato «meno maschile, con minori sicurezze e con condizioni difficili anche fuori dalla fabbrica».

La dimensione satirica, riflette Cianferoni, potrebbe sicuramente trovare spazio nei riferimenti al telelavoro: «È facile immaginare Fantozzi che lavora in bagno o sul divano, o resta perennemente connesso alla Rete per il terrore di non essere rintracciato dai capi. E l’aspetto caricaturale potrebbe forse aiutare a descrivere questioni fondamentali, come ad esempio il distacco tra i tempi consacrati all’attività professionale e quelli dedicati allo svago personale».

Una cosa è certa, conclude il sociologo ticinese: «I libri e i film di Paolo Villaggio dimostrano bene quanto sia sempre stato importante il ruolo degli artisti, soprattutto quelli capaci di sviluppare - in modo accessibile a tutti e non soltanto a un piccolo ceto intellettuale - una visione critica dell’esistente».

Che cosa resta

La vera eredità di Fantozzi è però quella linguistica. I deonomastici sono ormai di uso comune. La Treccani li ha inseriti da anni nel suo vocabolario, lo stesso hanno fatto i più importanti dizionari d’uso. L’aggettivo «fantozziano» è sinonimo di «persona impacciata e servile», ma indica anche una situazione «penosa e ridicola». In un bellissimo libro pubblicato nel 2013 (“Una sterminata domenica. Saggi sul Paese che amo”, Il Mulino), lo storico della letteratura Claudio Giunta ha sintetizzato in modo efficacissimo il lascito semantico di Paolo Villaggio.

«Negli ultimi quarant’anni - scrive Giunta - di niente e di nessuno si è riso più che di Fantozzi. I residui di queste risate, oltre che ben fermi nella memoria, sono tutti visibili nel linguaggio che adoperano gli italiani: vadi, venghi, dichi, fogna di Calcutta, salivazione azzerata, fronte imperlata di sudore, la poltrona in pelle umana, il megadirettore galattico: tutto questo lessico della disperazione e del sopruso, il lessico usato e subìto da chi sopravvive non solo ai piani bassi dell’organigramma aziendale ma ai piani bassi della vita, è diventato ormai - e stabilmente - lessico famigliare degli italiani, quasi senza distinzioni di ceto, istruzione, provenienza geografica».

Un linguaggio e un immaginario, aggiunge il filologo torinese, che possono anche essere «detestabili» (e per molti lo sono, effettivamente) ma la cui efficacia è «superiore a quella di qualsiasi romanzo o saggio. La corazzata Potëmkin di Villaggio è proverbiale come i tre anni di militare a Cuneo di Totò». Una forma di critica estrema, ma liberatoria. Che tutti, prima o poi, hanno adottato. Facendo propri gli iperbolici aggettivi che Villaggio ripeteva in modo quasi ossessivo: agghiacciante, patetico, terrificante, mostruoso.

Il tennista e il comico: storia di un’amicizia molto speciale

«Paolo era una delle persone più intelligenti e colte che io abbia mai conosciuto. Ogni volta che lo vedevo, aveva la capacità di sorprendermi, una cosa che non capita spesso con gli altri». Al telefono, sulla scaletta dell’aereo che lo porta in vacanza, Adriano Panatta accetta di rispondere a qualche domanda per raccontare «l’amico di una vita». A dispetto dei 18 anni di differenza, il tennista e il comico erano legatissimi. Insieme scrissero anche un libro, “Lei non sa chi eravamo noi” (Mondadori, 2014), storia di un viaggio avventuroso in Sardegna assieme a Ugo Tognazzi e di una fantascientifica partita di tennis sui prati di Wimbledon. «Nell’ultimo periodo, quello in cui non stava tanto bene, mi telefonava e mi diceva: “Ti chiamo per sapere se sono vivo”. Sentiva che la fine si stava avvicinando ma scacciava la paura con un po’ di benevola cattiveria». Anche il proverbiale cinismo di Paolo Villaggio, secondo Panatta, «era una forma di difesa. Aveva una base di timidezza, che però non scalfiva la forza dell’uomo».

Il ricordo dell’artista

«Paolo è stato un grande intellettuale - dice ancora Panatta - poteva parlare di qualsiasi argomento e con chiunque. Ha lavorato con grandissimi registi, da Olmi a Fellini, e ha scritto libri che hanno fatto la letteratura. Fantozzi è diventato un’icona mondiale. Non sopportava soltanto gli stupidi e gli arroganti. Quando li incontrava poteva davvero diventare cattivo come alcuni personaggi dei suoi film più belli».