Musica

Franz von Suppé, un maestro dell’operetta fra Vienna e l’Italia

A duecento anni dalla nascita del compositore di «Cavalleria leggera»
Francesco Ezechiele Ermenegildo, Cavaliere Suppé Demelli: in arte Franz von Suppé (1819 -1995).
Carlo Piccardi
17.04.2019 06:00

Leichte Kavalerie è l’operetta di Suppé (1866) che nella nota ouverture vede sfilare un drappello di ussari a suon di fanfara galoppante, in guizzante movimento perfettamente circolare, non predestinato quindi a incontrare il nemico; semmai a trovare riposo nel nostalgico abbandono di Czardas, in un quadro che ne fissa la rappresentazione in una favola di soldatini animati da immaginazione infantile. La frequenza del tema militare e l’impettita presenza dell’ufficiale asburgico nell’operetta viennese hanno creato quella raffigurazione dell’esercito incorniciato come un sogno sentimentale che, al seguito di strategiche dislocazioni, conduce immancabilmente attraverso territori levantini ai confini della fantasia. In Cavalleria leggera è la vasta pianura ungherese, in Fatinitza (1876) sono i Balcani in piena guerra russo-turca, in Die Afrikareise (1883), una delle ultime operette di Suppé, lo sguardo è spinto fino a un Egitto dove ottomani si incontrano con napoletani e maroniti in un assurdo carosello di inverosimiglianze.

È un caso allora che il creatore dell’operetta viennese fosse un Dalmata formato a Padova e trapiantato a Vienna? Francesco Ezechiele Ermenegildo Cavaliere Suppé Demelli - di cui quest’anno ricorre il bicentenario della nascita avvenuta a Spalato il 18 aprile 1819: si spense a Vienna il 21 maggio 1895 - giunse sedicenne nella capitale in tempo per assistere ai successi di Donizetti e di Verdi, che abitavano l’ambiente viennese al punto da dargli l’illusione di respirare aria di casa. In verità la sua musica è un raro equilibrio tra musica italiana e stile viennese. Ciò che nell’ouverture Poeta e contadino suona ancora idiomatico – il suono di fanfara di Alpenjäger, l’arioso donizettiano del violoncello che segue lo scoppio del tutti orchestrale, preparato da un’autentica tempesta alla Rossini, sfociante in un’esplosione dal protervo stampo ritmico verdiano prima di distendersi in un valzer – in seguito si fuse in una formulazione che sarebbe rimasta modello dell’operetta praticata da Strauss e altri. Italiana nell’operetta di Suppé è la struttura della vocalità, il giro di frase, il rapimento della melodia che in Boccaccio (1879), oltre ad adottare l’incalzante montaggio di situazioni tipico di Verdi nei concertati, ritrova forza dimostrativa addirittura nell’uso occasionale della lingua materna: il duetto «Mia bella fiorentina».

Con ciò Suppé non poteva non diventare bersaglio di Eduard Hanslick, il critico che calava giudizi dalla «Neue Freie Presse», già a partire da Paragraph 3 (1857) qualificato come negozio di merce usata pieno d’abiti di fogge diverse, raffazzonati e rimessi a nuovo: «(...) là un vezzoso cappello di paglia di Firenze appartenuto a Rossini riceve una dura visiera in cuoio, su un tedesco berretto di studente servito a Lortzing spicca un rosso pennacchio, un nero frack di Auber è foderato con stoffa da vela e il verdiano mantello da carbonaro con strisce di tela batista».

In verità a Suppé era riuscita un’operazione di delicato dosaggio stilistico alla misura di una città che, al crocevia dei popoli, rimaneva esposta a ogni sollecitazione, interpretandone la natura nelle poetiche righe poste in calce all’ultima pagina dell’operetta Boccaccio: «La natia espressione / succhia il bimbo col latte materno; / è la sostanza di vita / che non appassisce, ma che solo si assopisce. / Nel momento in cui improvvisamente si desta / essa fa ritornare il vecchio giovane».

L’orizzonte mediterraneo, che si risveglia nelle memorie d’infanzia dell’anziano compositore, è solo una delle tante facce della coscienza che in ogni Viennese dissimula lontane origini: per ogni Valzacchi (intrigante nel Rosenkavalier) contiamo innumerevoli Prohaska, Szedlak e cognomi ancor più vistosamente associabili a immigrazioni trasformarono Vienna in città franca. Il «barocco desiderio di dissimularsi», la mascherata come «dimensione operettistica del barocco austriaco (...) riduzione sempliciotta della concezione della vita come un gran teatro», che Claudio Magris ravvisa nella festa multicolore della Fledermaus di Johann Strauss jr., si accompagnano a un secondo livello di dissimulazione, dietro cui sonnecchia l’eredità della diversa etnia, che al momento del risveglio scoppia nella struggente Czardas di Rosalinde o nell’irresistibile esortazione del gondoliere («Komm in der Gondel») di Eine Nacht in Venedig, accompagnata dal potere retrospettivo su cui si fonda la fedeltà alla tradizione tipica della cultura austriaca, che mescola la coscienza del retaggio dottrinale coagulato in una cultura organica al sentimento di lontane origini («Klänge der Heimat»).

La componente italiana è una costante anche in Strauss, il cui Pipistrello, in apertura di sipario, si annuncia nell’accento tenorile di Alfredo; per non parlare della Maskenball-Quadrille (sui temi dell’opera verdiana) e altri ammiccamenti al patrimonio musicale del vicino meridione. Così se tarantella e gesto arioso del canto fanno da sfondo pittoresco alla storia di Gasparone, il bandito siciliano di Millöcker, gli acuti appassionati nei duetti a cuore aperto del Bettlerstudent sono ancora di schietta marca italiana. «Questo è ciò – rimbrottava ancora Hanslick – che ci rende così insopportabile la maggior parte delle operette viennesi: il fatto che esse scimmiottino convintissime Verdi e Meyerbeer. Le loro Sepperl e Leni cantano come Raoul e Valentina, e ogni rissa di osteria diventa una Notte di San Bartolomeo» (riferimento a Gli Ugonotti). Decisamente la chiusura del severo censore verso il melodramma, destinato a rimanergli conficcato come spina nel fianco, non conobbe resipiscenze.

Curiosamente sarebbe stato un collega come lui nato a Praga, August Wilhelm Ambros, a dissentire proprio sul diritto di cittadinanza che Hanslick rifiutava al gusto italiano: «Si può ben dire che la viennese gioia di vivere in quegli anni salisse fino a un sibaritico oblio di sé. Valzer di Strauss, farse di Nestroy, l’opera italiana con Tadolini e Moriani e inoltre la “Theaterzeitung” di Bauerle era ciò che allora si designava come specifico “Wienertum”».