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«Gesualdo da Venosa tra orrore e bellezza»

Lo scrittore Andrea Tarabbia analizza la figura del protagonista del suo romanzo «Madrigale senza suono» con cui lo scorso fine settimana si è aggiudicato il prestigioso Premio Campiello
Francesco Mannoni
17.09.2019 06:00

È un varesino il vincitore della 57. edizione del Premio Campiello, assegnato lo scorso fine settimana. Si tratta del quarantunenne di Saronno Andrea Tarabbia che con Madrigale senza suono (ed. Bollati Boringhieri) ha sbaragliato gli altri finalisti ottenendo 73 voti su 277 votanti. A metà strada tra il romanzo e il saggio, Madrigale senza suono ruota attorno alla figura del musicista Carlo Gesualdo, noto come Gesualdo da Venosa, madrigalista vissuto a cavallo del Cinque e Seicento (1566 -1613) appartenente alla nobile famiglia napoletana dei Gesualdo. Per vendicare l’onore tradito dalla chiacchierata moglie Donna Maria d’Avalos, Gesualdo uccise lei e il suo amante trovando poi nella musica una sorta di espiazione, componendo splendide opere che secoli dopo avrebbero attratto l’attenzione di Igor Stravinskij, allertato dal profondo senso di nostalgia e smarrimento che esplodeva in quelle musiche barocche e rinascimentali entro le quali l’artista aveva depositato tutto il suo tormento. Dopo il delitto il nobile fuggì da Napoli e si acquartierò nella fortezza di Gesualdo, dove scrisse musiche memorabili. Se ne allontanò solo tre anni dopo per recarsi a Ferrara a sposare in seconde nozze Eleonora d’Este, in un matrimonio frutto delle solite combinazioni gestite dalla politica delle casate nobili del tempo che intrattenevano rapporti d’alleanza con la Chiesa. Nel frattempo, ogni accusa a suo carico era stata rimossa. Dello strano rapporto tra violenza e arte nella figura di Carlo Gesualdo ma anche del perché una figura così controversa abbia attirato la sua attenzione , ne abbiamo parlato con lo stesso autore.

In Madrigale senza suono s’avventura nel campo di un omicida, di un uomo che per varie ragioni diventa un assassino terrificante. Che cosa le piace studiare, comprendere di questa tipologia di persone?
«Di Gesualdo non mi interessava tanto l’aspetto omicida, quanto le cause, per così dire sociali, del suo gesto e le conseguenze – la malattia, ma anche la straordinaria vena compositiva che lo ha preso dopo aver commesso un gesto tanto efferato. Non abbiamo prove che l’omicidio sia la causa scatenante della sua arte: è però vero che le sue composizioni sono successive a quel gesto; scoprire se tra queste due cose, tra l’orrore e la bellezza, c’è un nesso è un compito molto stimolante per un romanziere».

La copertina del romanzo di Tarabbia, edito da Bollati Boringhieri.
La copertina del romanzo di Tarabbia, edito da Bollati Boringhieri.

Il principe Carlo Gesualdo da Venosa autore di famosi madrigali tardo cinquecenteschi uccise la moglie e l’amante ma beneficiò dalla comprensione delle autorità del tempo perché agì per «giusta causa»: un comportamento che anticipava la terribile legge in vigore fino a non molti decenni fa in Italia sul delitto d’onore?
«In qualche modo sì: non sono un esperto di diritto, ma tra le varie cose che ho letto per preparare il romanzo ce n’era proprio una che accostava questo “diritto all’omicidio” al delitto d’onore. Di fatto, l’omicidio che Carlo commette altro non è che un delitto d’onore protetto dalle leggi dell’epoca: l’assassinio veniva tollerato purché non fosse un atto premeditato, ma commesso d’impulso e, naturalmente, purché fosse commesso da un marito nobile contro la moglie fedifraga (e non viceversa, attenzione!): di fatto la legge protegge la purezza del casato, protegge il cognome. Una moglie che mette le corna al marito nobile mette a rischio la continuità del blasone».

Ma il principe era un vero genio musicale o un pazzoide violento, oltre che una sorta di maniaco della sua sicurezza?
«Sono convinto che non fosse pazzo, ma che arrivò all’omicidio costretto dalle convenzioni, dalle chiacchiere che ad un certo punto a Napoli passavano di bocca in bocca e, probabilmente, perché spinto da qualcuno che lo consigliò e lo instradò. Carlo era sicuramente un fumantino, un passionale, una persona che soffriva di scatti d’ira, ma era anche un malinconico, qualcuno che oggi rubricheremmo come depresso. Sicuramente non era un pazzo: fu un buon amministratore del Regno, nel testamento – un inno alla razionalità e al buon senso – pensò ai sudditi, al Paese, perfino al figlio che aveva avuto con una popolana; fece molte opere pubbliche, pensò al bene comune. E poi sì: era un genio musicale. Ogni epoca conosce degli artisti che sono la sintesi e la sublimazione di tutte le caratteristiche fondamentali dell’arte che è stata prodotta. Carlo è stato, per il tardo Rinascimento e in campo musicale, questo tipo di artista: qualcuno dentro il cui lavoro si può leggere, in filigrana, tutto ciò che è stato prodotto fin lì e – e qui sta la sua grandezza – i semi di certi sviluppi futuri».

Un ritratto del principe Carlo Gesualdo da Venosa
Un ritratto del principe Carlo Gesualdo da Venosa

Dopo anni d’esilio Carlo Gesualdo si risposa, ma dedicando alla musica la maggior parte del suo tempo, e torna a Napoli lasciando la moglie a Ferrara: una vocazione totale all’arte?
«L’esilio, anzitutto, è autoimposto. Vuole stare solo, non sta bene, vuole comporre e cacciare. Si è sposato in seconde nozze con una estense per questioni di opportunità politica e perché Ferrara, a metà degli anni Novanta del Cinquecento, è ancora la capitale europea della musica. Gli interessa conoscere uno dei suoi maestri, Luzzaschi, sentire le celebri dame ferraresi che cantano, vedere la corte estense dove davvero passano tutti i più grandi. Gli interessa infine procurarsi dei nuovi strumenti. Fatte queste cose, perde interesse nei confronti di Ferrara (nei confronti della seconda moglie non l’ha mai avuto): torna a casa, compone, suona, si chiude sempre più in se stesso».

Secondo gli esperti Gesualdo scrisse composizioni notevoli ma dopo la morte fu presto dimenticato. Cosa convinse Stravinskij a riprendere la sua opera dando nuova vita all’ingegno di un musicista di un lontano passato?
«Stravinskij semplicemente lesse alcuni spartiti (peraltro mancanti di alcune parti) di Gesualdo e sentì una scossa o qualcosa di simile: era esistito qualcuno, tre secoli prima, che aveva pensato alla musica nello suo stesso modo. Anche perché Stravinskij, in qualche maniera, è un musicista di sintesi: prende le forme del folklore o dei secoli precedenti (XVIII e XIX specialmente) e le reimpasta, le riscrive, le reinterpreta dando loro una forma novecentesca. In questo, al netto di tutti i distinguo che andrebbero fatti, Gesualdo e Stravinskij si somigliano e si parlano. Dunque per Stravinskij è quasi naturale innamorarsi di Gesualdo e volerlo far suo».
L’artificio «gotico e macabro» come lei stesso lo definisce per bocca di Stravinskij serve a dare a Madrigale senza suono la forza istintiva della cronaca che anima il manoscritto?
«Sì, ma non solo. C’è anche la voglia di giocare coi generi, di prendere gli stilemi classici del romanzo (il manoscritto ritrovato, il romanzo epistolare, il diario, il mostro nella cantina e così via) e di riscriverli, provando a rinnovarli, per vedere come stanno dentro un romanzo contemporaneo. Dopotutto, il romanzo fa con i generi e i topoi letterari ciò che Gesualdo prima e Stravinskij poi hanno fatto con i generi e i topoi musicali delle epoche che li hanno preceduti: li reimpasta e li rende moderni».

Qual è la maggiore differenza fra gli uomini Carlo Gesualdo e Igor Stravinskij?
«Lo dice Stravinskij stesso in un suo libro: Gesualdo è un autodidatta, è tutto spontaneità e istinto: è un musicista “di pancia”; Stravinskij è un metodico, un freddo, un calcolatore: è cerebrale e razionale. Sono l’uno l’opposto dell’altro quanto a metodo e preparazione. Forse è per questo che, a distanza di tre secoli, si parlano e si capiscono profondamente».