L’intervista

Gianfranco Marrone: «Che fatica ai nostri giorni essere pigri»

Il saggista e semiotico italiano ci parla del suo ultimo saggio, dedicato ad uno dei vizi più deprecati nella storia dell’umanità e che nei nostri frenetici anni, sembra avere sempre meno seguaci
© The Walt Disney Company
Francesco Mannoni
24.06.2020 06:00

«Per quanto si dica che il mondo è pieno di pigri e fannulloni, il lockdown, che ha costretto milioni di persone a casa per mesi in tutto il mondo, ha mostrato una situazione contraria: ci siamo infatti lamentati di questo ozio, abbiamo avuto problemi a star fermi, a non lavorare, a star distesi sul divano a guardare vecchi film in tv o a ritrovarci con la famiglia per fare altro». L’ozio e la pigrizia non sembrano appartenere all’uomo moderno, almeno per Gianfranco Marrone, ordinario di semiotica all’Università di Palermo e autore del saggio La fatica di essere pigri. Lo abbiamo intervistato.

Professor Marrone, nel suo saggio, analizzando acutamente il lato debole della propensione umana all’inattività, sembra escludere che lo stop forzato, cui ci ha costretto il coronavirus, possa aver creato predisposizioni all’ozio.
«Questa orribile pandemia, e il regime di isolamento forzato che ha provocato, ha messo il mondo al contrario, come in una parodia assai amara. Facendoci capire tante cose, oppure dimostrando cose che avevamo già intuito. Una di queste è che siamo tutti schiavi del lavoro, anche se non ce ne accorgiamo. Fermarci è la fine. Siamo costretti da tutta una organizzazione economica, sociale, politica ad andare avanti senza sosta. La nostra è una società della prestazione, nella quale è saltata ogni differenza fra impegni e svago, di modo che il tempo libero è ancora più affannoso, stancante, performante di quello del lavoro. I nostri consumi sono - devono essere - altamente produttivi: siamo tutti dei “prosumer”. Nella pausa pranzo dall’ufficio ci fiondiamo in palestra con l’app dello smartphone che ci informa sul livello di rendimento raggiunto dal nostro corpo; terminato il lavoro corriamo al supermercato per la spesa e subito a casa per preparare l’immancabile cena gourmet, badando a non dimenticare le indicazioni della nutrizionista, per poi chiudere la giornata con una lezione di tango... Non stiamo mai fermi. Ho letto a metà marzo la dichiarazione di un tizio il quale sosteneva che è meglio morire piuttosto che essere inattivi. Affermazione che si commenta da sé».

Ma qual è, a suo avviso, la vera essenza della pigrizia?
«Di solito si pensa che la pigrizia sia un’indole soggettiva, individuale. A me pare piuttosto che sia una situazione intersoggettiva, comprendente due o più soggetti, anche istituzionali. Il pigro è uno che resiste a chi vuol farlo lavorare (sia esso un individuo o una intera società); se non ci fosse questo obbligo continuo a darsi da fare, non ci sarebbe nemmeno il pigro. Da questo punto di vista la pigrizia è una tecnica di resistenza. Ovvio però che, vista dall’altro punto di vista, è un vizio mortale, un peccato di negligenza».

Il suo studio approfondito sulla pigrizia è un elogio o un modo per capire meglio la portata del «fenomeno»?
«Elogi della pigrizia ne esistono moltissimi, a iniziare dal celebre Diritto alla pigrizia di Paul Lafargue, il genero di Marx, il quale sosteneva che i lavoratori non debbono chiedere più lavoro ma più tempo libero. Per Lafargue il lavoro non nobilita l’uomo ma lo brutalizza. Diversamente da Marx, che distingueva fra lavoro concreto (positivo) e lavoro astratto (negativo), per Lafargue il lavoro è sempre negativo. Stessa cosa diranno Oscar Wilde e Bertrand Russell, ma già l’avevano detto Seneca e molti pensatori giapponesi. Oggi poi c’è una inflazione di testi che rivendicano il non far nulla».

Il suo libro vuole essere una indagine prima storica e poi strutturale del fenomeno?
«Sì. Ho provato a prendere in considerazione le varie fasi della storia della pigrizia, dalla maledizione biblica del lavoro, attraverso l’otium letterario latino, passando per l’accidia cattolica e il calvinismo, arrivando fino all’attuale società dei consumi, dove anche il tempo libero è diventato un impegno. E poi ho cercato dei casi esemplari di narrazioni in cui il pigro è protagonista, dal folklore fiabesco fino a un romanzo come Oblomov di Gončarov, dove il personaggio principale resiste a ogni forma di attivismo. Non fa mai nulla: prima se ne dispiace, poi capisce che ha ragione lui, sono gli altri che devono rassegnarsi. Il pigro emerge bene solo nelle storie, è un personaggio da storytelling».

Viviamo in una società della prestazione nella quale il tempo libero è ancora più affannoso, stancante e performante del lavoro

Qual è la differenza tra ozio e pigrizia?
«L’ozio è il non far nulla, spesso visto come momento positivo. Quando è forzato non è più ozio, diventa clausura, costrizione. La pigrizia esige invece, come dicevo prima, tutta una situazione, un racconto, dove c’è un obbligo al lavoro da aggirare, al quale resistere. Le due cose si confondono nei momenti in cui, come per esempio tutto l’Ottocento, la rivoluzione industriale, aiutata dal calvinismo, impone un’etica del lavoro a cui nessuno può sottrarsi».

Perché la pigrizia, sentimento «moralizzato e polarizzato», è sempre stata considerata negativa?
«Dipende dai periodi storici. A lungo il lavoro è stato considerato una disgrazia, derivante dalla maledizione biblica contro Adamo. Lavoravano solo gli sfigati e l’ozio era per i nobili, ossia per i ricchi. A poco a poco le cose si son invertite: il lavoro è diventato azione che nobilita l’uomo e l’accidia un peccato mortale. Fino ad arrivare alla odierna società della prestazione, in cui il pigro non è manco considerato come figura sociale pertinente. Motivo in più per faticare per riuscire a essere pigri: gesto rivoluzionario».

Fra i tanti campioni di pigrizia presenti sia nella letteratura (ha citato l’Oblomov di Gončarov) sia nell’universo dei fumetti (da Paperino a Snoopy), a chi si sente di assegnare la palma della vittoria?
«Sicuramente a Paperino, che è il pigro perfetto: fatica come un matto per conquistarsi l’amaca e i suoi nemici sono quelli che vogliono portarlo via dalle lenzuola, a cominciare da Paperina, ma soprattutto zio Paperone. La pigrizia di Snoopy è invece atipica, perché è uno che non fa nulla di serio, ma ha moltissime attività ludiche. Non fa che travestirsi, che assumere le sembianze di personaggi immaginari e fa quello che fanno loro (l’aviatore, il medico, l’avvocato...). Ma si tratta di ruoli che assume per gioco».

In conclusione: la pigrizia è una predisposizione o una conquista?
«Certamente una conquista, assai faticosa. Io invidio molto chi è pigro per predisposizione, ma sono casi molto rari».