L’intervista

Giuseppe Antonelli: «La grammatica è bella e vi spiego il perché»

A colloquio con il linguista autore del libro «Il museo della lingua italiana» in cui si auspica la creazione di una struttura all’interno della quale valorizzare il nostro idioma
Il linguista Giuseppe Antonelli
Carlo Silini
16.12.2019 06:00

Mondadori ha pubblicato un libro bellissimo, non solo per la grafica assai curata e i contenuti accattivanti, ma perché pesa - piacevolmente - come un mattone: la carta è particolarmente pregiata e resistente. Lo capisci anche solo impugnandolo che non è un volume qualsiasi. Infatti è un museo, Il museo della lingua italiana, come indica il titolo. L’autore, Giuseppe Antonelli, è un aretino che insegna all’Università di Cassino, racconta storie di parole in tv (ne Il Kilimangiaro, in onda su Rai 3) e scrive libri. Ma soprattutto è fra i promotori di un progetto per la costruzione di un Museo della lingua italiana, che ancora non esiste. O meglio, esiste, per ora in un libro. Lo abbiamo intervistato.

Giuseppe Antonelli, spesso si dedicano i musei a realtà morte o scomparse...
«Ma l’idea del Museo della lingua italiana nasce dall’esigenza opposta: far capire che la lingua è viva e cambia nel tempo. È anche una risposta alle eccessive rigidità a volte in termini di reazioni a parole nuove o ad alcune evoluzioni, magari piccole, della grammatica. È proprio il movimento continuo e dinamico della lingua nel tempo che questo museo della lingua italiana vorrebbe rendere».

In effetti dall’indovinello veronese dell’VIII secolo (il primo testo scritto del dialetto volgare italiano) ad oggi l’italiano è tutta un’altra cosa.
«Certo, bisogna sapere che la lingua italiana cambia, anche se non è così diversa da quella che parlava e scriveva Dante. Ma nel tempo stesso i secoli l’hanno arricchita di altri elementi. Il secondo aspetto del museo è quello di ricordare che la lingua siamo noi».

La copertina del saggio di Giuseppe Antonelli
La copertina del saggio di Giuseppe Antonelli

Cioè?
«La lingua non è soltanto quella della letteratura, come ci viene trasmesso a scuola. La lingua è l’elemento in cui viviamo tutti i giorni. Noi e le generazioni che ci hanno preceduto. Bisogna allora ragionare su quale sia la lingua che era stata condivisa nelle generazioni precedenti. E capiamo che l’italiano diventa la lingua di tutti gli italiani solo tardi».

Quando?
«Direi solo un secolo dopo l’unità d’Italia, avvenuta nel 1861. È solo dopo il boom economico, dopo il benessere, la possibilità di leggere, scrivere, studiare e guardare la tv che l’italiano diventa conquista vera. C’è anche un italiano del calcio, della televisione e della radio... e prima ancora c’è stato un italiano che noi linguisti chiamiamo popolare: quello degli emigranti, dei soldati della Prima guerra mondiale. Insomma, ci piacerebbe che questo museo rendesse più profonda la conoscenza della lingua italiana da parte degli italiani e delle italiane».

Ma quanto piace agli italiani la loro lingua?
«Molto. È qualcosa in cui quasi tutti ci riconosciamo indipendentemente dalle ideologie, dalla provenienza. È un collante identitario forte».

Quindi lei è ottimista nei confronti del futuro.
«Senz’altro. L’italiano sta vincendo anche la sfida con la tecnologia di Internet, come ha vissuto e vinto tante altre sfide del passato. Una grande lingua di cultura che cambia, ma rimane sempre una grande lingua di cultura».

Dove si potrebbe creare una sede non solo virtuale di questo museo?
«La sede è una delle questioni che rimangono aperte. Partiamo dai luoghi geografici. Potrebbe essere Firenze, perché l’italiano che parliamo e scriviamo è di fatto il fiorentino letterario del Trecento, grazie alla mediazione del grande umanista Pietro Bembo. Potrebbe essere Roma perché Roma è pur sempre la capitale d’Italia. O potrebbe essere la Milano di Manzoni, perché Manzoni ci ha consegnato una lingua italiana diversa da quella della tradizione puristica... Ma si potrebbe anche immaginare un nucleo centrale del museo e poi una sorta di museo diffuso che valorizzi questi patrimoni che non sono trasferibili».

Non riesco a considerare l’italiano del Ticino fuori dall’Italia: è un italiano interessante e a volte tra linguisti vediamo delle differenze divertenti, come quando voi dite “azione” per indicare “sconto”

Lei dedica un capitolo del suo libro all’italiano fuori dall’Italia. Che dire di quello che si parla in Svizzera?
«Nel mio libro non ne parlo perché non riesco a considerare l’italiano del Ticino fuori dall’Italia. Non lo è, per cominciare, dal punto di vista storico, perché il Ticino è diventato svizzero solo nell’Ottocento. Ma posso dire che quando il linguista Luca Serianni, con alcuni collaboratori – tra cui il sottoscritto –, allestì nel 2003 una mostra sulla lingua italiana alla Galleria degli Uffizi a Firenze, c’era un’intera sala dedicata all’italiano in Svizzera. Quindi è un elemento che in un vero museo della lingua italiana ci sarebbe. È un italiano interessante e a volte tra linguisti vediamo delle differenze divertenti, come quando voi dite “azione” per indicare “sconto”».

Sostiene che nei secoli la lingua italiana è cambiata ma si è arricchita. Ma si è anche impoverita: molti lanciano l’allarme riguardo a un certo eccesso di anglismi.
«La cosa va vista da diversi punti di vista. Se l’allarme è quello delle parole inglesi nell’italiano io starei abbastanza tranquillo. Anzitutto perché a tutt’oggi nei dizionari dell’italiano dell’uso, che continuano ad aggiornarsi, la percentuale di parole riconoscibili come inglesi o come anglicismi arriva al 3%. Quindi di invasione non si può parlare. L’altra questione riguarda la storia. Ci sono stati periodi, tra la fine del Seicento e l’Ottocento, in cui, da quello che possiamo ricostruire, l’uso di francesismi era densissimo. Tuttavia tantissime di quelle parole francesi di quell’epoca sono scomparse. La selezione viene fatta dalla decantazione del tempo. Quante delle espressioni inglesi che usiamo oggi rimarranno? Credo poche. Rimarranno quelle per cui non abbiamo trovato un corrispettivo italiano, come il computer».

L'idea

«La lingua italiana non ha mai avuto un suo museo. Un museo grande, articolato, tecnologico come quelli dedicati alle altre lingue. A dispetto di progetti e tentativi, quel museo è rimasto un sogno. Questo libro è un modo per realizzarlo». È questo l’obiettivo del libro Il museo della lingua italiana di Giuseppe Antonelli, edito da Mondadori.

I piani e le sale
Il museo descritto dall’autore, leggiamo nel «vestibolo», cioè nell’introduzione, è «strutturato su tre piani, corrispondenti a tre grandi epoche. Articolato in quindici sale, incentrate su altrettanti temi. Fondato su sessanta oggetti di natura diversa, icone di sessanta diversi aspetti o concetti. Tutti oggetti con una loro concreta fisicità, una precisa presenza nello spazio: ancore della memoria e trampolini della fantasia». Il libro è strutturato nello stesso modo, cioè in tre parti corrispondenti ai piani (I. L’italiano antico; II. L’italiano moderno; III. L’italiano contemporaneo) con le rispettive stanze (capitoli) ognuna col suo oggetto-icona».

Gli oggetti e le idee
La linea del tempo percorsa va dal 770-780 (epoca dell’indovinello veronese) al 2015 (quando cominciano a diffondersi i primi assistenti digitali vocali, come Siri). Non vi si trovano soltanto i grandi nomi della letteratura ma anche quelli di chi ha inciso in modo determinante sulla lingua italiana anche se meno conosciuto dai più. Ci sono escursioni nei dialetti, nell’italiano fuori dall’Italia, nell’italiano popolare, nonché oggetti come la tv, la radio e il telefono e fenomeni come i messaggini e i social network.