L’intervista

Gori, l’anarchico esiliato che rese immortale Lugano

Lo storico italiano Massimo Bucciantini ci racconta i retroscena di una canzone celeberrima
Il murale Pietro non torna indietro che l’artista Agostino Iacurci ha dedicato a Gori in via Lavizzari a Lugano. © CDT/Gabriele Putzu
Matteo Airaghi
Matteo Airaghi
05.06.2020 06:00

Stavolta ci tocca da vicino. Addio Lugano bella. Storie di ribelli, anarchici e lombrosiani di Massimo Bucciantini, storico dell’Università di Siena, appena uscito per Einaudi è il terzo e ultimo libro dedicato a una battaglia per la libertà nella storia d’Italia. Su questa sua appassionata incursione luganese gli abbiamo posto qualche domanda.

Professor Bucciantini, mentre Il canto degli anarchici espulsi meglio noto come Addio Lugano bella è rimasto romanticamente nell’immaginario popolare fino ai nostri giorni la storia del suo autore, Pietro Gori, è andata via via perdendosi nel tempo: per quali ragioni rievocarla oggi?

«Perché di fronte al mondo di oggi, credo che sia cosa buona e giusta ricordarsi di chi a partire dalla fine dell’Ottocento cantava “nostra patria è il mondo intero” e unica legge è la libertà. E Pietro Gori è certamente uno dei massimi rappresentanti di questa idea di un mondo globale dal volto più umano. Che non si accontentò mai di vivere nel “cattivo presente”. E che per questo sacrificò l’intera sua esistenza – lui, avvocato, figlio di un’agiata famiglia toscana – combattendo e sognando un mondo meno ingiusto e più libero. Questo libro – che vuole essere un invito a leggere la storia del movimento anarchico con occhi sgombri da stereotipi e pregiudizi – racconta la sua vita. La storia di un agitatore e un organizzatore rivoluzionario, ma anche di un seminatore di idee, di un conferenziere di successo, di un uomo di teatro e grande attore, applaudito e acclamato in molte parti del mondo. Ed è il racconto scritto da uno storico. Dove nulla è inventato e dove le avventurose tracce del “malfattore” ed esule Pietro Gori sono emerse dopo anni di lavoro e di scavo, andando a caccia di fonti e documenti sparsi in mezza Europa, nelle biblioteche e negli archivi italiani, svizzeri, francesi e olandesi».

Parliamo un po’ della canzone: come è strutturata, come è arrivata fino a noi e perché il suo successo è andato persino oltre gli intenti per cui fu scritta?

«È ancora oggi una delle canzoni popolari più amate. Cantata fin dai primi del Novecento nei cortei del Primo maggio, nelle feste operaie e nelle sagre contadine, si è ben presto trasformata in un inno alla libertà, patrimonio comune di generazioni di studenti e lavoratori. Riscoperta nel secondo Novecento, è stata riproposta da cantautori illustri, da Giorgio Gaber a Enzo Jannacci, da Milva a Vinicio Capossela, e poi portata al successo dai versi di una notissima canzone di Ivan Graziani. Addio Lugano bella non è mai stata dimenticata perché contiene immagini potenti, a cominciare da quella iniziale: un gruppo di esuli che, sotto la neve, sono costretti a lasciare Lugano, la città che da sempre, in nome della libertà e della tolleranza, aveva accolto e protetto profughi e rifugiati politici. Una poesia-ballata che suscita sentimenti di giustizia e coraggio (“Scacciati senza colpa, gli anarchici van via, ma partono cantando con la speranza in cor”), e che contiene parole solenni, con dei precisi richiami alla predicazione evangelica dei primi cristiani (“Andrem di terra in terra, a predicar la pace, ed a bandir la guerra”)».

Si può dire che quel canto dolente ha reso immortale anche il nome stesso di Lugano dove venne scritta e per cui traspaiono sentimenti ambivalenti: come si comportarono il Ticino e la Svizzera in quel particolare frangente storico nei confronti di quegli esuli politici considerati “pericolosi sovversivi”?

«A Lugano non ci sono targhe o iscrizioni che ricordino la nascita di quella celebre canzone. E si capisce la ragione di questa assenza. L’espulsione di Pietro Gori nell’inverno del 1895, insieme a quella di altri esuli italiani, non fu certo una pagina luminosa nella storia della Confederazione. Va detto però che sono anni segnati in tutta Europa da aspri conflitti sociali, da attentati dinamitardi e leggi liberticide, caratterizzati in particolare dall’assassinio, da parte di Sante Caserio, un giovanissimo anarchico milanese, del presidente della Repubblica francese Marie-François-Sadi Carnot. Pietro Gori è ingiustamente accusato di essere il mandante di quell’omicidio e per questo motivo è costretto a lasciare l’Italia e a rifugiarsi a Lugano. La sua presenza preoccupò non poco il governo elvetico. A tal punto da far maturare la decisione di allontanare lui e l’intera comunità anarchica che risiedeva in Ticino. Bisogna attendere il 2012 perché Pietro Gori “torni” a Lugano, anche se in forma simbolica e un po’ clandestina. In via Luigi Lavizzari c’è un bel murale di Agostino Iacurci. S’intitola Pietro non torna indietro e rappresenta appunto Pietro Gori. L’ho scoperto un po’ per caso lo scorso inverno, quando mi sono recato apposta a Lugano per vederlo. Ed è stato un incontro piacevole. Pietro ha un’aria simpatica e un po’ sbarazzina, e non ha nulla di sovversivo. È un omone grande e grosso, in gilet, pantaloni e cappello neri, intento a pedalare su una bicicletta piccola, piccola, con la mano sinistra poggiata sul manubrio e l’altra che tiene tra le dita una sigaretta accesa».

Ma il suo è anche un libro che parla di «lombrosiani» e antropologia criminale: che cosa ebbe a che fare lo studioso torinese con le tristi vicende degli anarchici in fuga per l’Europa?

«In quegli anni Cesare Lombroso è l’instancabile “cacciatore” di prostitute, alcolizzati, assassini, banditi, folli. Basta recarsi oggi a Torino a visitare il suo Museo per rendersene conto, dove sono in bella vista crani di delinquenti, immagini di corpi tatuati, ritratti di pazzi ed epilettici, e anche di anarchici. Dopo l’attentato a Carnot, Lombroso pubblica un libro dal titolo Gli anarchici, in cui – fatte poche eccezioni (Ibsen, Reclus, Kropotkin) – dichiara che i sostenitori dell’idea anarchica sono per la maggior parte criminali o pazzi, o qualche volta l’una e l’altra cosa insieme. Da quel momento l’intero universo anarchico è marchiato dallo stigma della devianza ed entra a far parte della nuova “scienza” da lui fondata: l’antropologia criminale. Una scienza che non si dimostrò tale, ma che a lungo esercitò un grande fascino tra medici, psichiatri, giuristi, ma anche tra magistrati, prefetti e questori, divenuti in breve tempo “lombrosiani” e prontissimi a costruire una sistematica rete di controllo e di repressione per ogni tipo di devianza, compresa quella politica».

In che senso l’esperienza di Pietro Gori e l’addio a Lugano segnò un punto di non ritorno nella storia dell’Europa agli albori del Novecento?

«L’addio a Lugano sembra coincidere con la fine di una grande speranza, di una grande utopia: quell’idea di libertà “integrale” che non si piegò mai ad accettare le posizioni gradualiste dei socialisti riformisti alla Turati, né le posizioni “stataliste” dei seguaci di Marx, ma neppure – e va detto con forza – la scorciatoia della violenza individualista, la cosiddetta “propaganda del fatto”, che Pietro Gori considerò sempre sbagliata e perdente».