Guccini: «Scrivere libri è un sogno che ho sin da quando ero bambino»

«Scrivo perché non ho più niente da dire con le canzoni: non mi venivano più. E se non vengono più è inutile arrampicarsi sugli specchi. Faccio fatica anche a strimpellare la chitarra e a pensare note e versi». Dopo quasi mezzo secolo di musica racchiuso in 16 album e 150 canzoni con capolavori come Dio è morto, Eskimo, La locomotiva e vent’anni di collaborazione letteraria con Loriano Macchiavelli, che ha prodotto otto romanzi e creato due personaggi memorabili – il maresciallo Santovito e l’ispettore della forestale Marco Gherardini detto Poiana – Francesco Guccini, che ormai ha abbandonato completamente la canzone per la narrativa, dopo Croniche epifaniche, Vacca d’un cane e Cittanova blues, pubblica un altro libro da solista: Tralummescuro – Ballata di un paese al tramonto . L’artista, che adesso viaggia verso gli ottant’anni (è nato a Modena il 14 giugno del 1940) con questo libro (il cui titolo dialettale, tradotto alla lettera significa «all’imbrunire») ha voluto scrivere una sorta di «Amarcord» di Pavana, una borgata appenninica al confine tra Emilia Romagna e Toscana dove sorge il mulino di famiglia e dove Guccini ha le sue radici, (titolo anche di uno dei suoi primi album), alle quali tiene in modo particolare. Il libro, a metà strada tra la nostalgia e l’elegia corredato da un ampio glossario, è un inno ai tempi andati, a quando la povertà era endemica ma la gente solidale e i boschi erano una «cassapanca prodiga» che in ogni stagione aveva qualcosa da donare (funghi, castagne, frutti di bosco, cinghiali la cui carne veniva tenuta «in salamoia con vino rosso e erbe aromatiche e spezie per togliere il selvadgo»), per irrobustire lo stentato menù quotidiano.

Al nostro incontro Francesco Guccini arriva appoggiandosi a un bastone, ma l’alto, massiccio, simpatico e bonario cantautore dalla barba bianca, nonostante qualche piccolo acciacco non è cambiato: è sempre il «compagnone» delle partite a briscola all’osteria paesana, il «maestrone» come lo chiamano dalle sue parti. E maestro ha dimostrato di esserlo in ogni cosa che ha fatto sempre sostenuto da una semplicità geniale e da una costante ricerca del bello e del vero.
Guccini, c’è più nostalgia o rimpianto nel suo libro?
«Nostalgia sì, rimpianto no, perché adesso stiamo meglio e molte cose sono migliorate. Un tempo nelle case l’acqua corrente non c’era e bisognava andare alla fontana a fare provvista. Una volta non c’erano le automobili che ci sono adesso, non c’era la televisione e le radio erano poche. E per il telefono c’era il posto pubblico. C’è ancora, in parte – ma ormai sta morendo – la scienza contadina. Quelle famiglie di zappatori che col loro lavoro favorivano l’agricoltura. E in ogni casa si allevava il maiale e c’erano tanti altri animali a razzolare nell’aia. Oggi il mondo è cambiato».
Nel libro il dialetto e la lingua italiana si rincorrono e sovrappongono: parlate così a Pavana?
«Noi parliamo diversi tipi di italiano. Molto spesso sono lingue diverse. Parliamo l’italiano a strappi con strappi dialettali: era la lingua di un mondo dove tutti parlavano il dialetto in casa, in negozio, nelle comunicazioni (e spesso nelle comunicazioni amorose); ma ad un certo punto i pavanesi si sono messi a parlare italiano perché confinavano con la Toscana. Avevano grande facilità per l’italiano parlato che è molto simile al dialetto. Con le mescolanze, la lingua parlata, è diventata una sorta di memoria orale».
Con le parole della memoria vuole ridare vita a Pavana?
«A Pavana non c’è più gente, non c’è ricambio e di conseguenza non c’è più vita. Certi narratori latino americani parlano di niente, di luoghi inventati come Macondo: io che vivo in un posto reale voglio mitizzare i pochi pavanesi rimasti, persone normalissime che paragono a capitani di ventura come Giovanni dalle Bande Nere. È la mitologia innocente di Pavana, che mi sono costruito in tutti questi anni quando c’erano due calzolai, tre sarti, un falegname e sei piste da ballo nel raggio di un chilometro; e c’era anche un cinema e un’osteria dove distinte signorine accoglievano eventuali clienti: non ci mancava niente. Eravamo ricchi di quel poco che fa felice la gente».


Forse vanno tutti via perché Pavana è un po’ fuori dal mondo?
«Pavana non è così fuori dal mondo: non c’è più la gente che c’era una volta, ma un po’ è così in tutto l’Appennino. Pavana si spopolò quando i contadini cominciarono ad andare a lavorare in fabbrica a Porretta perché la loro vita era troppo stressante. Così l’Appennino è crollato e la desolazione avanza. Nel censimento del 1911 c’erano più di 7.000 abitanti: ora poche centinaia».
Lei ha scritto circa 150 canzoni in oltre quarant’anni di attività, canzoni sempre saldamente intrecciate alla storia. Le capita mai di riascoltarle?
«Per l’amor di Dio! Non solo non ascolto le mie canzoni, ma non ascolto più musica in generale. E non suono più nemmeno la chitarra ammesso che ne fossi capace: ho perso persino i calli ai polpastrelli. L’ultimo disco l’ho fatto nel 2012 e ho detto: “Basta con le canzoni”. Le canzoni ormai cerco non di dimenticarle – perché penso di aver fatto delle buone cose – ma di lasciarle da parte. È un mondo non dico finito perché non c’è mai una fine a nulla: il cammino dell’esistenza e dell’amore non si interrompe mai. Questa è la vera poesia della vita».
Ma non le manca un po’ il mondo della canzone?
«No perché adesso scrivo libri, che è il sogno che coltivavo sin da bambino».