Guè Pequeno: «Diventare papà? Una gioia che auguro a chiunque»

Partiamo dal titolo del suo nuovo album: GVESVS. Cosa c’è dietro alla scelta del nome? Gioca solo con la sua data di nascita, il 25 dicembre, o vuole trasmettere un significato più profondo?
«Il titolo si basa sull’estetica provocatoria tipica della tradizione del rap. Mi rendo conto che, per alcuni, l’immagine potrebbe essere un po’ controversa, ma voglio rassicurare che non ha nessun intento offensivo».
Come è nato il disco e qual è il concetto alla sua base?
«La differenza rispetto agli album precedenti è che GVESVS l’ho interamente realizzato con lo stesso produttore musicale, prima, invece, prendevo le basi qua e là. Abbiamo articolato il lavoro in tre fasi: la prima a Lugano, la seconda in Sicilia e la terza in Grecia, a Santorini. Abbiamo poi impacchettato il tutto in Italia, a Milano. A livello concettuale, volevo fare un disco che avesse un suono molto hip hop e rap senza per forza inseguire la moda musicale. Per raggiungere l’obiettivo, ho sfruttato il mio status all’interno della scena musicale italiana. Il bello di crescere, per non dire di invecchiare (ride, n.d.r.), è che ci si può permettere di fare quello che si vuole senza l’assillo di scrivere una canzone che sia attraente dal punto di vista delle classifiche e delle vendite. Ovviamente, poi, ci sono pure dei pezzi che funzionano bene in radio e che contano numerose visualizzazioni sul web probabilmente per il loro carattere più pop».
Qual è il fil rouge che unisce i brani dell’album?
«Alcuni pezzi sono più introspettivi ed intimi rispetto al passato e credo che sia in ciò che si può rintracciare un filo conduttore; penso, per esempio, alla canzone fatta insieme a Coez o a quella che vede la partecipazione di Elisa: sono piuttosto intime, ma è esattamente questa la loro forza perché sono in grado di parlare in maniera più efficace alle persone. Come sempre, poi, ho lavorato tanto sulla forma e sulla tecnica perché sono le cose che mi affascinano di più del rap: all’interno delle canzoni ci sono molte citazioni e rime ad affetto che, a seconda di quanto si vada in profondità con l’ascolto, possono essere colte o meno».
Ha parlato di collaborazioni importanti con Coez ed Elisa (cui si aggiungono quelle con Marracash ed Ernia). Come sono nate e - penso soprattutto a quella con la cantante friulana che solitamente non gravita attorno alla dimensione del genere rap - come è stato lavorare con questi artisti?
«Nel caso di Coez avevo scritto un pezzo che gli ho proposto e che lui è stato felice di cantare con me. Tra noi si è instaurato così un bel rapporto ed è proprio questo il bello di lavorare con altri musicisti: si creano dei legami e si formano delle amicizie. Il brano con Elisa è invece molto sofisticato: è uscito qualcosa di particolare sia per i miei fan, sia per i suoi. Se guardo a tutta la mia carriera, posso dire che, senza dubbio, è una delle canzoni di cui sono più orgoglioso: non capita infatti tutti i giorni di lavorare con un’eccellenza della musica italiana.
Anche alla luce delle sue collaborazioni, come posiziona GVESVS nel panorama musicale?
«Quando ho iniziato a realizzare l’album, la mia idea era di fare un disco piuttosto crudo, “underground”. Alla fine, però, come tutti i miei lavori precedenti, è uscito qualcosa che si trova a metà strada tra il mainstream e l’underground. Ci sono perciò dei pezzi che possono esaltare le persone a cui piace il rap più aggressivo e da strada e pezzi che, invece, possono raccogliere il consenso di un pubblico più generalista. In Italia sono in pochi quelli che, una volta diventati popolari, riescono a mantenere intatto il rispetto che si erano guadagnati all’interno del genere in cui sono nati».
Nei suoi testi insiste molto sul fatto che, come artista, lei nasce sulla strada. Se il Guè di oggi guarda al Guè degli inizi, si riconosce ancora?
«Direi di sì perché, nonostante crescendo abbia cercato, musicalmente parlando, anche altre cose, nell’ultimo triennio si può dire che io sia tornato alle origini in quanto ho scritto dei pezzi veramente rap, anche se rivisti in chiave moderna».


Come sta affrontando questi anni di pandemia di coronavirus?
«Inizialmente è stato un momento disorientante. Prima che apparisse la COVID-19 viaggiavo molto sia per lavoro, sia per piacere; il virus ha però stravolto le mie abitudini. Paradossalmente credo tuttavia che il fatto di rimanere fermo mi abbia stimolato a creare di più visto che negli ultimi tre anni ho pubblicato tre dischi».
Il successo più grande lo ha però ottenuto nella sfera privata: recentemente è nata sua figlia...
(Sul suo volto appare un sorriso raggiante, n.d.r.) «Ho provato delle emozioni fortissime che non so descrivere ancora adesso. Auguro ad ogni persona di sperimentare la gioia che si prova a diventare genitori. Sono alla vigilia di festeggiare il suo secondo mese di vita e mi piace vedere come, con il passare del tempo, l’interazione tra noi aumenti sempre di più, anche se di poco. Non vedo l’ora di riuscire a comunicare in modo completo con lei, per ora ci limitiamo a dei sorrisini. Che padre sarò? Sicuramente cercherò di trasmettere a mia figlia la passione per le arti e mi impegnerò affinché lei possa realizzare i suoi sogni».
Ha accennato all’arte: so che è un campo che la appassiona...
«Non ho la pretesa di essere un esperto, tuttavia essendo cresciuto a contatto con la cultura urbana ho sempre avuto un forte contatto con la pop art, penso, per esempio, al mondo dei graffiti. Le arti visive mi affascinano fin da quando sono piccolo».
Ormai da diversi anni lei vive a Lugano. Come mai ha scelto di trasferirsi in riva al Ceresio?
«Sono venuto in Ticino per stare al riparo dai riflettori e trovare la pace. Milano è una città dinamica ma che, alla lunga, ti consuma. Col passare del tempo, poi, a Lugano mi sono formato una rete di affetti e amicizie».
Sta per iniziare Sanremo, cosa pensa del Festival della canzone italiana?
«Ho cantato all’Ariston assieme a Mahmood l’anno in cui lui ha vinto ed è stata un’esperienza molto interessante. Dopo un periodo difficile in cui, senza voler essere offensivo, era diventato un evento “da vecchi”, negli ultimi anni il Festival ha saputo rinnovarsi e mi piacerebbe sicuramente tornare ad esibirmi in questo contesto. Staremo a vedere cosa mi riserva il futuro».
Cosa si deve aspettare la gente che verrà a sentirla allo Studio Foce o al Vanilla Club?
«Per me sarà una nottata divertente perché le due situazioni saranno molto diverse tra loro. Allo Studio Foce proporrò un set più intimo durante il quale, invece di concentrarmi sulle grandi hit, poserò il mio focus sul rap più duro e crudo. Essendo invece il Vanilla una discoteca, a Riazzino confezionerò un set con un taglio principalmente da party. La cosa bella è che credo proprio che non ci sarà nemmeno un brano che sarà condiviso dai due appuntamenti visto il taglio diametralmente opposto delle due serate».