Teatro

«I Cenci» ed il crudo racconto di una violenza

Innovative e intriganti soluzioni sceniche nella produzione di LuganoInScena e del Conservatorio della Svizzera italiana presentata al LAC
Laura Di Corcia
28.05.2019 06:00

Quando negli anni Trenta del secolo scorso teorizzò il suo «Teatro della crudeltà», Antonin Artaud intendeva passare il concetto di un messa in scena che trasmettesse la realtà in modo crudo e senza aggiustamenti, evitando di oscurare la violenza alla base dei rapporti umani con il velo attraverso il quale, per difenderci, guardiamo agli eventi. Ecco, possiamo dire che questo messaggio sia stato portato domenica sera al LAC in modo fedele: I Cenci, il testo ambientato nella Roma papale di fine Cinquecento e messo in scena grazie alla collaborazione fra LuganoInScena e il Conservatorio della Svizzera italiana su testo di Artaud e musiche di Giorgio Battistelli, è il racconto crudo e ossessivo di una violenza carnale, quella che il Conte Cenci agì nei confronti della figlia Beatrice.

Tratta dal capolavoro di Antonin Artaud ambientato nella Roma papale di fine Cinquecento, la pièce narra la storia del terribile Conte Cenci, del suo assassinio per cui venne accusata e condannata a morte la figlia Beatrice. (Immagini © LAC Lugano)
Tratta dal capolavoro di Antonin Artaud ambientato nella Roma papale di fine Cinquecento, la pièce narra la storia del terribile Conte Cenci, del suo assassinio per cui venne accusata e condannata a morte la figlia Beatrice. (Immagini © LAC Lugano)

In scena un formidabile Roberto Latini (Premio Ubu 2014 come miglior attore) racconta non solo con la voce roca e bassa alla Carmelo Bene, ma anche con il corpo, sottoposto a piegamenti e torsioni continue, mai riposato, il farsi della violenza, il giustificare l’assolutismo delle proprie posizioni per il tramite di una logica egoriferita e sprezzante nei confronti del vivere comune. Il dialogo con la figlia, Elena Rivoltini, è all’insegna della parola spezzata – una parola che si fa carne, che crea. Ma in questo testo, e nella «mise en espace» (che a dire il vero ci è sembrata una vera e propria regia) di Carmelo Rifici, le parole contano relativamente.

Lo spettacolo, gioca sui volti grandi degli attori proiettati sui due schermi, sulla confusione dei ruoli e sul rapporto tra testo e musica

Quel che conta è il dialogo con i video proiettati dietro lo schermo, girati a Villa Ciani e Villa Heleneum, curati dal giovane videomaker Francesco Puppini, un modo per degeminare il racconto, e farlo quindi fiorire due volte (Il teatro e il suo doppio, era a proposito il titolo del libro di Artaud). E quel che conta è il rapporto con la musica, la cui direzione è affidata a Francesco Bossaglia: da questa relazione nasce la voce, che prepara lungo tutta la messa in scena il momento in cui la violenza raggiungerà il suo apice, quello stupro raccontato sullo schermo che in realtà insegue lo spettatore sin dall’inizio, grazie anche ai rumori di tacchi, di scarpe che si avvicinano, proiettate per tutta la sala.

Un viaggio onirico dove l’incubo possiede la forza centripeta che sempre dovrebbe avere il teatro

I piani si accavallano, in questo spettacolo, che gioca sui volti grandi degli attori proiettati sui due schermi, sulla confusione dei ruoli (Anahì Traversi che nel video è il doppio di Beatrice, la figlia stuprata e poi artefice della morte del padre, in scena è invece la mamma), sulle corse dietro il velo trasparente che a un certo cala sul palco citando alcune soluzioni messe in atto da Romeo Castellucci in Democracy in America – anche se in questo caso il velo ha la funzione di proteggere gli occhi da un eccesso di violenza, lì serviva invece a raccontare un mondo non ancora colpito da violenza, innocente per quanto duro. Uno spettacolo onirico, in cui anche l’elemento cromatico gioca il suo ruolo: la danza finale di Marta Ciappina, con luci sullo sfondo, chiude con grande impatto un viaggio onirico dove l’incubo possiede la forza centripeta che sempre dovrebbe avere il teatro.