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I fotogrammi della memoria di Renato Berta

Il grande direttore della fotografia ticinese ripercorre in un libro i suoi 50 anni di carriera segnati dalle collaborazioni con molti cineasti prerstigiosi
Renato Berta al Festival di Locarno 2009. © CDT/ARCHIVIO
Antonio Mariotti
07.01.2022 07:19

«Sono nati in un mondo già globalizzato e già dominato dal digitale, e questo mondo non li spaventa, anzi li affascina. (...) Quando penso a loro torno ad essere ottimista, mi dico che il momento di svolta che stiamo vivendo potrebbe sfociare in qualcosa di molto positivo. Il cinema forse sparirà completamente dai film e i film stessi forse spariranno... ma nascerà qualcos’altro che sono davvero impaziente di conoscere (...)». È con questo appassionato atto di fede nei confronti dei millennials che Renato Berta conclude Photogrammes, la sua magistrale «lezione di cinema» che lo ha portato, insieme all’amico sceneggiatore e regista Jean-Marie Charuau, a ripercorrere una carriera eccezionale che lo ha visto, sull’arco di mezzo secolo, collaborare con i nomi più prestigiosi della cinematografia svizzera e di quella francese, ma non solo. Oggi Berta è cosciente che le cose sono del tutto mutate rispetto ai «favolosi anni Sessanta» in cui ha mosso i primi passi nel cinema, non solo per ragioni tecniche (il passaggio dalla pellicola 16 mm a quella 35 mm e poi al digitale) o finanziarie (la sempre maggiore dipendenza dai soldi provenienti dalle reti televisive). Il problema principale per il 76.enne direttore della fotografia bellinzonese - che nel 2021 ha firmato le immagini del suo 120. titolo: Qui rido io di Mario Martone - è piuttosto un certo «imborghesimento» del cinema che ha portato un’intera generazione di registi, per lo più isolati dentro il proprio mondo, a scordarsi troppo spesso che girare un film significa dar vita a un’opera creativa, composta da una serie di piani che abbiano una propria coerenza temporale e spaziale. Non basta insomma rispettare il budget a disposizione e pensare che ciò che non ha funzionato durante le riprese possa essere risolto al montaggio o in post produzione. Una constatazione amara, basata su un’esperienza che travalica la tecnica per inglobare gli aspetti umani che contribuiscono alla buona riuscita di un film.

Da Bellinzona a Roma
Berta si appassiona al cinema agli inizi degli anni Sessanta, mentre frequenta la Scuola arti e mestieri di Bellinzona. È il momento in cui in Francia nasce la Nouvelle Vague e fondare un cineclub scolastico può essere paragonato a un atto rivoluzionario. Grazie all’assidua frequentazione del Festival di Locarno e ai personaggi che vi incontra approfondisce la conoscenza di quel mondo che lo affascina sempre più e matura la decisione di frequentare una scuola di cinema. A vent’anni parte per Roma e, senza crederci troppo, si presenta all’esame di ammissione al Centro Sperimentale di Cinematografia a Cinecittà. Viene accettato e passa due anni nella capitale italiana, dove tra i suoi insegnanti ci saranno Rossellini, Visconti, Antonioni e Pasolini. Al ritorno in Svizzera si fa le ossa lavorando come cameraman per la televisione che allora usava per i suoi reportage la pellicola 16 mm.

Tra la realtà e la finzione

Proprio durante questo periodo di gavetta, Berta vive due esperienze fondamentali. Mentre gira un reportage televisivo nella Spagna franchista, filma un gruppo di contadini che battono il grano con metodi medioevali cercando di realizzare delle immagini suggestive con il teleobiettivo, quando uno degli uomini gli si avvicina e in un perfetto francese gli dice: «State filmando la nostra povertà per la vostra ricchezza». Berta smette subito di filmare, ripone la cinepresa e in quel momento matura la convinzione morale che lavorare nel cinema di finzione è il modo migliore per avvicinarsi alla realtà. Una realtà ricostituita certo, ma dietro la quale c’è la precisa concezione di un regista che di quella realtà punta a mostrare gli aspetti più salienti nel modo più appropriato. Al tempo stesso, in un Paese dove il nuovo cinema sta muovendo i primi passi, l’operatore ticinese capisce che il possedere una cinepresa 16 mm gli permetterebbe di trovare migliori occasioni di lavoro. Un investimento non da poco che potrà affrontare grazie all’aiuto della produttrice luganese Caterina Genni che aveva intuito le sue grandi potenzialità. È grazie a quella Eclair e alla sua dotazione di obiettivi che a partire dal 1968 alcuni giovani registi elvetici (François Reusser, Alain Tanner, Daniel Schmid) lo sollecitano per il loro primo film. È l’inizio di una magnifica avventura tuttora in corso.

Renato Berta e Jean-Marie Charuau, «Photogrammes», Parigi, Bernard Grasset, 332 pagg., 22€.