I viaggi astrali di Nadia Peter
Non importa dove ci troviamo o con chi siamo. Può capitare sotto una bollente doccia, oppure quando stiamo passeggiando tiepidamente con un nostro caro: saltuariamente per alcuni e sovente per altri, la nostra mente si solleva dal momento che sta vivendo e comincia a osservare con occhi nuovi. Nota nuovi dettagli, assapora nuove prospettive e cementa quel momento nei suoi ricordi come degli estranei ai suoi simili. Astral Departures, il primo album di Nadia Peter, in arte Perpetual Bridge, pubblicato a fine ottobre, condensa perfettamente in quaranta minuti quella sensazione di sublimazione della mente. Il disco, pubblicato da Everest Records esordisce con la title track che, tramite fili sottilissimi di suoni elettronici, attraversa le nostre orecchie e comincia ad avvolgere l’io dell’ascoltatore. Astral Departures è anche l’unica traccia del lato A del disco a richiamare vagamente la presenza di una voce umana: in questo tappeto infinito di suoni sintetici e astrali, si intravvedono ogni tanto lontani echi e sussurri che vivono a metà fra riconoscibile e alieno. Floating Deep gorgheggia invece lontane melodie talmente distanti e sfumate da riuscirne a intravvedere soltanto il lento oscillare: come quando facciamo cadere un sasso sott’acqua, il suono che ritorna è ovattato da una dimensione soverchiante. Le percussioni, anch’esse inizialmente estremamente distanti, crescono dopo una breve apnea nel silenzio e riaffiorano fino a raggiungere la superficie, dove però, rimangono sole. Il lato A dell’album si conclude con Paradoxical Propeller, una perla di musica ambient capace di esercitare con dolce chiarezza la maieutica di cui è capace la musica.
Come il brano d’esordio del lato A, anche la traccia che apre il lato B ha al suo interno distanti e sfumate tracce di voce umana. Forse nella disperata ricerca del simile, tanto cara alla nostra specie, alcuni suoni di Flying Stones (questo il titolo) vogliono essere letti come antropomorfi, in un panorama che vive di sintesi difficilmente intelligibile. Con queste sonorità più ritmate e che richiamano a tratti le composizioni di Aphex Twin, Perpetual Bridge procede poi il suo racconto con nuovi colori. Percussioni quasi tribali sostengono tese linee di sintetizzatore che paiono tagliare in orizzontale la quinta traccia, Abstract Possibilities, mentre Wild Park, che chiude il lavoro, più che una fine, pare un nuovo inizio. Si ritorna al brodo primordiale ambient dei primi brani, dove ad attendere l’ascoltatore insieme a smisurati tappeti sonori c’è un sound che ricorda dei vagiti. Umani? Animali? Reali? Poco importa, nuotiamo con loro in un liquido amniotico di suoni confortevoli e soffici, che verso la fine ci abbandona, lasciandoci da soli con questi vagiti. La dimensione esposta da Perpetual Bridge è, oltre che preziosa, cristallina. Riflessa nell’inafferrabile perfezione matematica padroneggiata dalla tecnologia, Nadia Peter racconta in silenzio una storia, forse anche la nostra, che si ripete in un ciclo infinito. Dove il familiare esiste in simbiosi con l’estraneo, e la mente ascolta oltre i suoi confini.